Fra i tanti neologismi del lessico politico contemporaneo, sta diventando sempre più in voga il termine «eurocrazia». Il suo signi-ficato è triplice. Si tratta, innanzitutto, di un sistema di governo imperniato sulle istituzioni Ue, che indirizzano a distanza, e in molti casi vincolano pesantemen-te, le scelte politiche nazionali. Obiettivo cardine di questo sistema (secondo significato) è assicurare il funzionamento dell’euro e del mercato interno. Non è che Bruxelles trascuri completamente le altre politiche pubbliche, incluse quelle sociali. Ma le subordina al primo obiettivo. A differenza della democrazia senza prefissi, l’eurocrazia poggia su una precisa e vincolante gerarchia di priorità. Pensiamo al Fiscal Compact, un trattato che prevede l’obbligo del pareggio di bilancio e la ridu-zione del debito pubblico al 60% del Pil entro vent’anni: senza se e senza ma. Il terzo significato è di natura culturale. Le élite eurocratiche (a cominciare da Ange-la Merkel e Wolfgang Schäuble, per scendere poi nei ranghi delle varie tecnostrutture della Ue) ritengono che ci sia un solo modo «giusto» di governare l’economia, quello basato su inviolabili criteri di stabilità monetaria e fiscale. Chi li segue è bravo, chi non li segue è cattivo. Per garantire la stabilità si devono fissare regole uguali per tutti, molte di natura quantitativa, sanzionando chi non le rispetta. Questo approccio (che affonda le proprie radici nelle dottrine ordoliberali, elaborate nel tempo all’interno del contesto culturale tedesco) poggia su una forte diffidenza nei confronti della politica democratica, considerata come sfera ove prevalgono interessi di parte e comportamenti opportunistici che danneggiano sistematicamente l’economia.
Il dibattito intellettuale è sempre più critico nei confronti del regime eurocratico, particolarmente nella versione che esso ha assunto durante la crisi finanziaria. Un libro recentemente uscito presso Cambridge University Press fornisce un’articolata panoramica dei capi d’accusa.
[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 2/17, pp. 292-304, è acquistabile qui]
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