“Bologna ha il monumento ai caduti più straordinario che ci sia. Orribile ma perfetto […] È un muro […] e il nome di ogni morto è illustrato dalla sua fotografia, la fotografia fornita dalla sua famiglia”.
Così Jean Giono, nel suo Voyage in Italie, descrive il sacrario dei partigiani che i bolognesi crearono spontaneamente a partire dalle prime ore della liberazione della città, il 21 aprile 1945. Fino a quel giorno, sul muro del Palazzo del Comune erano stati fucilati gli oppositoripolitici e proprio lì i loro cari iniziarono ad attaccare fiori e, soprattutto, fotografie. Immagini tirate fuori dai portafogli, tolte dai documenti o dalle cornici, oppure addirittura con la cornice ancora attorno, come se quel muro fosse una parete della casa. Giono, nei primi anni Cinquanta, racconta l’emozione suscitata da questo mosaico di volti che “ci appaiono dunque com’erano agli occhi di chi li amava: il grande e paffuto uomo coi baffi a manubrio, il bel tenebroso con la cravatta impeccabile [...] Mi sono venute le lacrime agli occhi davanti a un nome che una madre aveva accompagnato [...] con la fotografia di un biondino in braghini corti e colletto alla marinara. Aveva voluto custodirlo nel ricordo a quell’età. Mi sono avvicinato all’immagine, sia per mascherare la mia emozione, sia per imprimermi nella memoria i tratti di quel bambino. Era ancora più terribile di quanto pensassi. Si trattava della foto di un comunicando, pieno di meraviglia”.
Alcuni anni dopo il viaggio di Giono, il muro del ricordo spontaneo (che già aveva subito un incendio nel 1947) venne trasformato in un memoriale permanente, le immagini fissate dalla fotoceramica, diventando un segno importante per la storia cittadina e tuttavia perdendo la forza dell’urgenza sentita, in cui rabbia e dolore e dignità avevano trovato una forma.
Per ritrovare e comprendere quella scelta spontanea possiamo guardare gli scatti di Edward Reep, arruolato come pittore di guerra (ruolo tuttora esistente nell’esercito americano) che quel giorno colse i segni su quel muro, dove alle scalfitture delle pallottole e alle tracce di sangue venivano sovrapposte fotografie e fiori, sotto a una bandiera italiana listata a lutto, privata dello stemma dei Savoia. Alla base di tutto, un tavolino verde, trovato abbandonato e altare improvvisato su cui posare le fotografie, i fiori, piccole reliquie.
Solo pochi anni fa la figlia Susan ha ritrovato tra le carte di Reep una serie di rullini nascosti in una scatola di sigari e un album con vecchie fotografie. Sono così venute alla luce queste immagini scattate con una macchina Hasselblad, frutto di un baratto con una confezione di caffè, come Reep racconta nell’intervista rilasciata nel 2012.
Le fotografie e gli acquerelli – cui l’Istituto Parri dedica ora un’esposizione – mostrano momenti della discesa alleata dall’Appennino verso Bologna, dove Reep assistette alla prima settimana della vita della città liberata. C’è la gioia composta, c’è l’orgoglio militante e c’è, negli occhi delle persone accalcate attorno a quel muro, un dolore trattenuto, duro e fiero.
A partire da questi scatti Reep, tornato negli Stati Uniti, realizzò nel 1946 il dipinto The Shrine, attualmente custodito allo Smithsonian Museum di Washington.
“Questi fantasmi disposti lungo il marciapiede, in uno dei luoghi più frequentati della città e così com’erano nella loro umile vita, sono più commoventi di tutti i grandi ordini architettonici”, scriveva Giono. Lo sguardo stupito dello scrittore coglie l’immediatezza di questo memoriale non monumentale.
Alcuni decenni dopo, nel 1997, anche l’artista francese Christian Boltanski rimase profondamente colpito da questo mosaico di volti, realizzando a partire dal Sacrario bolognese il lavoro Les Regards (esposto nuovamente, in occasione di questo settantesimo, nella collezione permanente del Mambo): sguardi tratti da quelle fotografie, ingranditi, quasi a cercare in fondo agli occhi, ai dettagli del viso e dell’espressione, il perché della loro unicità, come unica fu anche la loro scelta di resistere e opporsi.
Fotografie e pochi oggetti personali, tante volte usati da Boltanski nel creare le sue opere – per raccontare la petite mémoire di ognuno – è ciò che resta anche di chi in questi giorni, in questi ultimi anni, vediamo disposto lungo i moli o sui ponti delle navi. Tuttavia, come ha ricordato lo stesso artista francese, spesso non conosciamo i loro nomi, le loro identità, scomparse in fondo al mare insieme ai corpi. La loro unicità è perduta, e le notizie li trasformano solo in numeri.
Nei giorni del settantesimo anniversario della fine della guerra che più ha segnato il corpo europeo, non possiamo chiuderci nella celebrazione del passato senza guardare a quello che accade nel nostro presente, ai margini dell’Europa. Sono questi sguardi che ci invitano a pensare e agire per una nuova liberazione.
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