Il dibattito italiano sul problema degli aiuti all’Ucraina sembra essersi polarizzato intorno a due estremi. Da un lato, troviamo una posizione che si può definire interventista, secondo cui è necessaria l’attuazione di una No Fly Zone da parte della Nato sui cieli ucraini, come richiesto dal presidente Zelensky in videoconferenza ai vari Parlamenti europei e al congresso Usa. All’altro polo si trova una posizione «pacifista» o «neutralista»: l’Occidente – la Nato, l’Ue o i singoli Paesi – dovrebbe astenersi da qualsiasi forma di intervento nel conflitto, anche indiretta, e dovrebbe invece spingere unicamente per una soluzione che permetta di porre fine alle ostilità il prima possibile.

Entrambe le posizioni contestano la politica adottata finora dall’Ue e dagli Stati Uniti, ossia l’invio di armamenti a Kiev e le sanzioni contro Mosca. Per i primi, il flusso di armi non è sufficiente a fermare l’invasione del Cremlino né l’uccisione dei civili: occorre contestare all’aviazione russa il comando dei cieli e prevenire i bombardamenti indiscriminati delle città ucraine. Per i secondi, la presa di posizione attiva pro-Kiev da parte dell’Occidente rischia di provocare un’escalation geografica del conflitto, dato che indurrebbe Mosca ad attaccare direttamente la Nato. Inoltre, direbbe John Mearsheimer, non avremmo il diritto di supportare uno dei belligeranti, dato che la guerra in Ucraina sarebbe scaturita dall’espansione della Nato verso Est, e quindi sarebbe in ultima istanza «colpa» dell’Occidente.

Questa polarizzazione del dibattito si basa su una falsa dicotomia sostenuta da una logica secondo la quale il supporto di armi porterà necessariamente a un intervento più esteso e diretto in Ucraina, sotto forma di conflitto aperto contro Mosca. Di conseguenza, l’Occidente deve scegliere se accettare il rischio di escalation o ritornare sui propri passi. Ma è effettivamente così? Il supporto a Kiev è necessariamente il preludio a un’escalation? Stiamo prolungando un conflitto che potrebbe mietere meno vittime, precludendo una sua possibile risoluzione?Il supporto a Kiev è necessariamente il preludio a un’escalation? Stiamo prolungando un conflitto che potrebbe mietere meno vittime e precludendo una possibile risoluzione?

In realtà, la logica del supporto indiretto a Kiev è diversa da quella dell’intervento diretto. Sebbene siano un costo perduto («sunk cost»), fornire armi letali all’Ucraina non indica necessariamente che i Paesi fornitori siano costretti a mandare personale militare in un secondo momento. Già diversi capi di Stato, tra cui Biden, Macron e Johnson, hanno indicato che non hanno intenzione di iniziare una guerra aperta contro la Russia. È per questo che la No Fly Zone è stata esclusa dalla Nato: essa richiederebbe l’abbattimento degli aerei nemici, e sarebbe pertanto un atto di guerra che darebbe a Mosca il diritto di rispondere attaccando le basi di partenza di velivoli e missili Nato.

L’invio di armamenti all’Ucraina non ci rende belligeranti per il semplice fatto che sono i soldati ucraini ad adoperarle. Tra la Nato e il campo di battaglia, pertanto, c’è un intermediario. Ed è per questo che i Paesi fornitori non rischiano un attacco diretto da parte russa. Sebbene Putin abbia minacciato conseguenze inimmaginabili contro chiunque interferisse nel corso dell’«operazione militare speciale», egli non può credibilmente minacciare un attacco militare verso i Paesi fornitori, così come gli Stati Uniti non bombarderebbero la Cina se Pechino rifornisse l’armata russa, per due motivi.

Primo: visto che le parti in guerra cercano spesso supporto esterno, la fornitura di armi a un governo avviene continuamente, e raramente porta a un conflitto diretto tra fornitori e belligeranti. Secondo, anche se diversi Paesi hanno pubblicamente annunciato il loro supporto all’Ucraina, i rifornimenti di armi avvengono in segreto, in modo tale che l’esercito russo non possa monitorarne il trasferimento. Al 7 marzo, i Paesi occidentali avevano già inviato 17.000 missili anticarro e 2.000 Stinger in Ucraina senza essere scoperti. Di conseguenza, è difficile cogliere i Paesi esterni nell’atto di fornire armi. Il rischio di escalation tra Russia e Occidente accresce significativamente se si impone una No Fly Zone, ma non se gli aiuti si limitano ad armi.

Passiamo ora al secondo punto, ossia l’intensificarsi del conflitto e la complicità nelle morti. Nel fornire armi letali all’Ucraina, prosegue il fronte neutralista, l’Occidente starebbe contribuendo al prolungamento del conflitto, e di conseguenza all’uccisione di un maggior numero di persone. Inoltre, visto che l’esercito ucraino ha arrestato l’avanzata russa via terra, aumenta la probabilità che Mosca decida di ricorrere a bombardamenti indiscriminati, aumentando i costi sulla popolazione e costringendo Kiev alla resa. Sarebbe più umano, sostiene ad esempio Alberto Cisterna sul “Riformista”, spingere Zelensky a deporre le armi in nome di una «pace umanitaria», anziché prolungare la sofferenza della propria gente. Questa logica, però, non corrisponde alla realtà dei fatti.

L’esercito ucraino ha fermato la prima ondata russa già prima dei primi invii di armi, grazie alla propria capacità militare, che è stata rafforzata da una partnership con la Nato che dura fin dalla guerra del 2014. La resistenza iniziale e la mancata cattura di Kiev hanno galvanizzato la resistenza, rendendo l’obiettivo iniziale di Mosca (un rapido cambiamento di regime) impossibile da raggiungere. Pertanto, il prolungamento delle ostilità sarebbe potuto avvenire anche senza gli aiuti occidentali. E sebbene gli armamenti nuovi in possesso dell’esercito ucraino aumentino le perdite russe e la frustrazione di Mosca, essi hanno probabilmente contribuito all’inizio dei negoziati tra russi e ucraini, aumentando i costi di una vittoria militare e costringendo il Cremlino a rivalutare le proprie opzioni.

In terzo luogo, è vero che questa politica di armamento compromette seriamente la posizione mediatrice dell’Ue o dell’Occidente? Come ha notato il generale Camporini sulle pagine del «manifesto», l’assistenza a Kiev «non impedisce la ricerca di una soluzione negoziata». I mediatori devono godere della fiducia delle parti in conflitto per essere efficaci, ma non devono essere necessariamente super partes. Dall’Angola alla ex Jugoslavia, sono molti gli esempi di mediazione di successo da parte di attori che, a un certo punto del conflitto, hanno supportato una delle parti in guerra. Nel caso ucraino, dati i contrasti tra la Russia di Putin e l’Occidente, non sarebbe stato comunque possibile presentarsi come neutrali.

D'altra parte, nonostante la richiesta di una No Fly Zone non sia stata accettata, l’Ucraina continua a riporre fiducia nell’Europa e negli Stati Uniti. Se avessimo rifiutato di aiutare Kiev militarmente, siamo sicuri che gli ucraini avrebbero acconsentito che negoziassimo un accordo in vece loro? Le democrazie occidentali avrebbero perso la fiducia dell’unica parte in guerra i cui valori e interessi sono compatibili con i propri, senza guadagnare granché nei rapporti col Cremlino, anzi dando ulteriore prova della propria debolezza. Sostenendo Kiev, invece, abbiamo più possibilità di far parte di una soluzione negoziata al conflitto.L’Italia, coordinandosi con il resto dell’Ue e della Nato, ha a sua disposizione una vasta gamma di strumenti militari, diplomatici ed economici, e deve saperli usare bene Ovviamente non dobbiamo dimenticare l’effetto che l’assistenza militare all’Ucraina può avere nei Paesi fornitori sul loro fronte interno. L’opinione pubblica nei Paesi occidentali, Italia compresa, ha risposto con sdegno all’aggressione di Putin: secondo un sondaggio Reuters, negli Stati Uniti la popolazione è favorevole a un intervento deciso in favore di Kiev. Tramite l’invio di aiuti, i governi possono dimostrare al proprio elettorato che stanno facendo qualcosa per resistere a Putin e supportare l’Ucraina, e pertanto guadagnare consensi, senza allo stesso tempo accrescere di troppo il rischio di escalation. Le sanzioni contro Mosca e l’accoglienza di rifugiati ucraini perseguono simili obiettivi, allo stesso tempo esterni e interni. È anche per questo che gli obiettivi delle sanzioni sono rimasti vaghi e non legati a metriche specifiche: verranno ritirate al momento di un armistizio, o saranno più durature? Lo stesso si potrebbe chiedere per gli aiuti militari: dureranno finché Kiev ne avrà bisogno, oppure fino a quando la popolazione si sarà stancata della guerra?

Quest’ultimo punto ci fa capire quanto sia importante comprendere la logica degli aiuti militari, della No Fly Zone e della neutralità. Qualche settimana fa, su questa rivista, Mario Ricciardi ha trattato il paradosso dell’invito alla pace e del bisogno delle armi: poiché molti di noi non abbiamo avuto esperienza diretta della guerra, facciamo fatica a immedesimarci e a comprenderla. E proprio per questo che il dibattito pubblico non può semplificare il fenomeno bellico più del necessario: il supporto militare alle parti in guerra non può essere ridotto a una semplice dicotomia tra belligeranza e neutralità, perché ciò distorce la realtà e aumenta il rischio di trarre conclusioni errate. L’Italia, coordinandosi con il resto dell’Ue e della Nato, ha a sua disposizione una vasta gamma di strumenti militari, diplomatici ed economici, e deve saperli usare bene. Se questi strumenti e i loro effetti non vengono ben compresi, rischiamo di trarre soluzioni semplicistiche e, in ultima istanza, controproducenti. Quando la posta in gioco è alta come adesso, non possiamo permetterci di sbagliare.