Il principio evangelico intorno al quale papa Francesco ha articolato il suo primo anno di ministero quale vescovo di Roma appare in tutta la sua semplice evidenza: non è l'uomo a essere fatto per il Sabato, ma il Sabato per l'uomo. Che si tratti di Dio, di Cesare, o delle potenze del mondo, poco importa; egli lo fa circolare, nelle parole e nei gesti, con fede persuasa nella sua urgenza - dentro e fuori la Chiesa. Generando una stupita accoglienza tra la folla dei molti, e la resistenza stizzita nei luoghi invisibili del potere contemporaneo dei pochi. Perché la costante applicazione di quel principio non solo disturba, ma viene percepita anche come il riscatto di una scintilla in grado di ribaltare l'inerzia nella quale ci siamo arenati. Dando per scontato che avere un lavoro significhi oramai un privilegio davanti al quale inchinarsi; o che risanare l'economia di un Paese possa garantire remunerativi sconti sulla vita delle persone, sulla loro salute, sulla vivibilità di quei legami fondamentali che ci tengono insieme - ancora per poco, però, perché anch'essi sono allo stremo. L'idolo di una «legge», del mercato, dell'economia, della religione, che assoggetta quel che rimane dell'umana dignità di essere a una logica che sfugge a ogni controllo, e il lessico sacrificale del quale essa costantemente si nutre, appaiono a Francesco evangelicamente insopportabili, ben prima di essere umanamente insostenibili. Non si tratta di dare qualche colpo di aggiustamento al sistema; esso sembra, semplicemente, aver smesso di funzionare nella sua virtuosità. Toltolo di mano a Dio, abbiamo consegnato l'«eterno», quale attributo, al potere finanziario; che si è costruito la sua casta di sacerdoti e devoti.
Abili manipolatori dell'idolo più mellifuo, il denaro, che ti fanno apparire come fosse giusto lì, a portata di mano; ma in realtà se lo tengono ben stretto per loro, giocando una partita dalla quale i più sono oramai definitivamente esclusi. Seguiti da una schiera di adepti, rapiti dall'apparenza di poter moltiplicare miracolosamente il nulla che abbiamo in mano. E quando Gesù azzardò qualcosa di simile, si trattava pur sempre di pane; e chiese ai suoi di dare del loro alla folla affamata. Non un miracolo contro natura, ma la naturale bellezza di rischiare il nostro per trovarci a sera tutti quanti in grado di attraversare i rigori della notte e godere dei primi calori dell'alba. Alla fine, ciascuno tornò a casa propria; e il Figlio dell'Uomo ne fu ben felice, senza nessuna preoccupazione per non averne tratto alcun vantaggio. Per tornare a immaginare questa liberalità, senza la quale non si dà nessuna fratellanza, nel nostro umanesimo europeo oramai prosciugato di ogni slancio, non sembrano rimanere che le semplici iperboli del racconto evangelico. È a esse che Francesco attinge, senza fare sconto alcuno alle potenze del mondo, e senza guardarsi più di tanto dai borbottii scocciati dei suoi. Come fece il Maestro, né più né meno; rimettendo in circolo, a favore di tutti, anche il diritto più esclusivo che potesse esistere: quello di Dio. Ed educandoci, con passione e pazienza, a condividere con lui il bene, apparentemente incomunicabile, della sua relazione figliale con l'Abba-Dio.
Gesù comprese ben presto che il Dio di una religione insensibile all'ingiustizia, sociale e politica, non era il suo; come non lo era quello che si trasformava in Faraone assoggettando la distretta dell'umano alla sua insaziabile voracità sacrificale. Il confronto che papa Francesco ha messo in atto è durissimo, come lo fu quello di Gesù. Senza perdere, però, mai la gentilezza del tratto e la signorilità della voce; perché sta giocando anche dalla parte di quelli che lo vedono come un nemico - e, forse, un giorno lontano dovranno anche dirgli grazie; come fanno oggi i discepoli, a distanza di secoli, ogni tanto rinsaviti dalla mania di commerciare Dio a modo loro. Venuto dai margini del mondo, Francesco riesce a vederlo da una prospettiva che non ci è (ancora) familiare. La sua passione per la giustizia sociale non vuole umiliare nessuno, né si nutre di una logica della redistribuzione imposta per legge; ma vive della drammatica consapevolezza che il mondo, nella sua interezza, rischia di trasformarsi in un margine ingovernabile - dove l'unica uguaglianza sarà quella di esserci tolti di mano l'un l'altro le radici profonde della nostra comunanza. Ecco perché osa più di ogni ideologia, mondana o religiosa che sia; e fa dei poveri un vero e proprio luogo teologico. Certo, per riscattare così quelli che oggi già lo sono; ma anche per porre il sigillo di Dio sulla fronte di tutti - sottraendoci, come sua proprietà, al dominio di una disperazione finale che tenta di accaparrarsi gli ultimi dividendi ancora disponibili. Un segno di speranza; ma, forse, non abbiamo più i codici per intenderlo come tale.
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