Avete presente quelle coppie che non fanno altro che rimbeccarsi, magari anche lasciandosi andare a imbarazzati scenate sulla pubblica piazza, ma che sotto sotto dipendono visceralmente l’una dall’altro e da quegli animosi litigi quotidiani? Ecco, questo è a grandi linee il rapporto che intercorre tra l’Unione europea e i cosiddetti partiti anti-establishment. Un rapporto d’amore e odio e di dipendenza. Una dipendenza asimmetrica, visto che sono principalmente queste formazioni politiche ad aver bisogno dell’Ue, laddove quest’ultima potrebbe farne a meno senza troppo rammarico.

I partiti anti-establishment hanno infatti un gran bisogno dell’Ue. Ne hanno bisogno come capro espiatorio su cui riversare frustrazioni e preoccupazioni di un pubblico sempre più disorientato e in sofferenza; ne hanno bisogno, più materialmente, come cassa di risonanza istituzionale – da cui lanciare i loro attacchi per accattivarsi nuovo pubblico in patria – e come mucca da mungere per finanziare la propria attività politica. Caso emblematico è quello di Ukip, il famigerato partito per l’indipendenza del Regno Unito, primo vero promotore della Brexit. Incapace di ottenere seggi a Westminster a causa di un sistema elettorale che non premia i partiti di taglia piccola o media e dal supporto territoriale diffuso, Ukip è riuscito a farsi strada tra il pubblico britannico grazie all’Ue e al sistema elettorale proporzionale utilizzato per selezionare i parlamentari europei. Una piattaforma, quella europea, che ha dato al partito di Nigel Farage credibilità istituzionale, fondi e un microfono con cui diffondere il verbo anti-Ue, uscendo dai margini ai quali il sistema elettorale domestico lo aveva relegato. Una situazione che sfiora il paradosso visto che l’Ue diventa il mezzo (a volte l’unico) grazie al quale questi partiti riescono a portare avanti la loro battaglia euroscettica.

I partiti anti-establishment hanno un gran bisogno dell’Ue. Ne hanno bisogno come capro espiatorio su cui riversare frustrazioni e preoccupazioni. Almeno sino a qundo non sono al governo

Ma se da una parte l’Ue viene “fregata” e manipolata a piacimento da questi partiti quando questi si trovano all’opposizione, alla fin fine è l’Ue ad avere la meglio in quelle rare occasioni in cui questi partiti riescono ad entrare al governo nei rispettivi Paesi. Prendiamo, a casa nostra, il caso di Fratelli d’Italia. Sicuramente rileva che un partito immortalato spesso a braccetto di sovranisti alla stregua di Marine Le Pen (vi ricordate il selfie tra Le Pen e Meloni, scattato nell’ambito della campagna per le europee del 2014?) scelga quale primo viaggio all’estero proprio Bruxelles, la capitale della tanto diffamata Ue. Una scelta obbligata, certo, considerata l’attuale dipendenza dell’Italia dai fondi europei di Next Generation Eu; eppure, non una scelta scontata da parte di un partito e di una leader che fino a qualche settimana fa apostrofava con toni battaglieri i vertici europei e intimava a quest’ultimi la fine di una presunta “pacchia”. Se infatti avessimo voluto prendere alla lettera le parole di Meloni – e, partendo dalle sue frequentazioni internazionali, scommettere su quale sarebbe stato il suo primo viaggio all’estero –, probabilmente Bruxelles non sarebbe stata la prima capitale a venirci in mente.

Tuttavia, a guardar meglio, questa decisione non è poi così eccezionale, collocandosi in un percorso di graduale accreditamento di Fratelli d'Italia presso l’Ue iniziato già dal 2018, quando Meloni annuncia l’intenzione di collocarsi tra i banchi del Gruppo dei Conservatori e Riformisti europei qualora il suo partito fosse riuscito nell’impresa di superare la soglia del 4% alle elezioni europee in programma da lì a un anno. Impresa che, diversamente dal 2014, riesce, permettendo a Meloni di mandare a Strasburgo ben sei parlamentari (la delegazione diventerà poi di otto dopo due defezioni da Forza Italia e Lega). Un gruppo politico, quello dei Conservatori e Riformisti, di certo non euroentusiasta e spesso tacciato di euroscetticismo moderato (sebbene loro stessi sottolineino che l’etichetta da usare sia quella di euro-realisti); ma che non si può considerare alla stregua di euroscettici hardcore quali il Front National di Le Pen e il tedesco Alternative für Deutschland, entrambi parte del Gruppo Identità e Democrazia insieme alla Lega di Salvini. Una appartenenza, quella di Fratelli d’Italia ai Conservatori europei, non solo di facciata visto che Raffaele Fitto – attuale ministro per gli Affari europei – sarà premiato nel 2019 con la vicepresidenza del gruppo e Giorgia Meloni niente meno che con la presidenza del partito europeo associato allo stesso, lo European Conservatives and Reformists Party (dal settembre 2020).

Il percorso di accreditamento di Fratelli d'Italia presso l’Ue inizia già dal 2018, quando Meloni annuncia l’intenzione di collocarsi tra i banchi del Gruppo dei Conservatori e Riformisti europei

E così, se da una parte Meloni incontra Steve Bannon alla festa di Atreju (settembre 2018), interviene alla Conferenza mondiale delle Famiglie a Verona (settembre 2019), sale sul palco della National Conservatism Conference a Roma insieme al primo ministro ultra-conservatore ungherese Viktor Orbán (febbraio 2020) e sugella l’amicizia con il partito di estrema destra spagnolo, Vox, partecipando a diversi suoi eventi, dall’altra si presenta quale ragguardevole presidente dello stesso partito in cui una volta sedeva il Conservative Party, il “rispettabile” partito mainstream e di governo britannico. Un’associazione che sembra in linea con il pensiero che Meloni ha enunciato due anni fa in quello che possiamo considerare il suo (attuale) manifesto sull’Europa. Presentandosi quale “ terza via blairiana di destra”, la leader di Fratelli d’Italia dichiarò l’intenzione di stare “in Europa con i partiti che condividono un modello confederale, con nazioni che collaborano ma restano sovrane in casa propria”.

A giudicare dalle dichiarazioni alla stampa rilasciate subito dopo gli incontri europei dalla presidente Meloni, ci troviamo ancora in una fase di luna di miele con l’Ue. Una luna di miele interessata visto che la dote che porta in dono quest’ultima è preziosa: l’Italia ha bisogno di Bruxelles e dei suoi fondi per affrontare la crisi dei prezzi del gas e attuare il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Non dimentichiamo, poi, che è negli interessi della stessa Ue mantenere l’armonia nei suoi rapporti con il nuovo governo italiano: l’Italia rappresenta dopotutto la terza economia dell’Eurogruppo e una sua instabilità avrebbe effetti devastanti sull’intero continente.

Forse ciò di cui dovremmo preoccuparci davvero non è tanto se Meloni continuerà o meno a collaborare con l’Ue. È chiaro che lo farà perché sa che questo è negli interessi della "nazione" Il rischio è piuttosto un altro: a mano a mano che Meloni si avvicina, giocoforza, all’Ue e si presenta quale interlocutore serio e affidabile, cresce la necessità di rimediare a quello che a taluni potrebbe apparire come un cambio di casacca e un tradimento ideologico. E come si rimedia? Con procedimenti estetici ma di sostanza: con norme liberticide (il decreto cosiddetto anti-rave) o promotrici di una pseudo-libertà (l’abolizione dell’obbligo vaccinale per il personale sanitario). Chi sarà la prossima vittima? La famiglia non-tradizionale? I diritti conquistati con decenni di lotte? I poveri disperati che cercano una tregua da fame e violenza?

Per ora non possiamo rispondere a queste domande, ma guardare al passato può aiutarci a formulare qualche ipotesi sul prossimo futuro. Non al passato pre-repubblicano, che ci farebbe corrucciare ancor di più, ma a quello più recente. Nel 2018, dopo anni di opposizione dai toni spesso demagogici, il Movimento 5 Stelle diventa partito di governo. L’abbandono degli scranni dell’opposizione segna un cambio di rotta radicale per un partito la cui fortuna politica era dipesa in gran parte dalla totale estraneità alla politica di palazzo. Diventare partito di governo ha infatti comportato per il movimento di Grillo la perdita di quella libertà di manovra che gli aveva permesso di abbracciare le posizioni più disparate in base alla convenienza politica del momento e diventare così primo partito italiano. Al governo, il Movimento 5 Stelle si è trovato di fronte una serie di nuovi vincoli. Non solo vincoli informali derivanti dalla necessità di fare i conti con la realtà che chi sale al governo si trova a ereditare, una realtà che spesso non permette di dare seguito a promesse fatte in campagna elettorale; ma anche vincoli formali esterni, come quelli determinati dalla nostra appartenenza all’Ue, e interni, in primis quelli che fortunatamente la nostra Costituzione ci pone. Che Meloni abbia scelto Bruxelles quale primo viaggio all’estero fa sperare che questi vincoli continuino a esserci e a funzionare.