Nel volume Giuristi del lavoro nel Novecento italiano (uscito per Ediesse lo scorso anno), Umberto Romagnoli ripete un’esortazione che merita di divenire una sorta di mantra per tutti coloro che sono attenti al diritto del lavoro: leggere, per chi non l’avesse già fatto – e, possiamo aggiungere, rileggere per chi ci si fosse dedicato in passato –, l’articolo Per una cultura sindacale in Italia apparso nel gennaio 1954 sulla rivista «il Mulino» (U. Romagnoli, Gino Giugni, il «compagno-professore»). Quel contributo, scritto a quattro mani da Gino Giugni e Federico Mancini, possiede infatti «le caratteristiche della bussola di cui si serviranno pionieri coraggiosi per orientarsi nella vasta terra di missione culturale che attende[va] di essere percorsa e dissodata». Recentemente Gian Guido Balandi ci ha ricordato che già il primissimo numero del «il Mulino» uscito il 25 aprile 1951, allora foglio di due pagine in formato lenzuolo, ospitava un lungo articolo del ventiquattrenne Federico Mancini dal titolo In attesa della legge sindacale. Lungo e fecondo è stato il rapporto dei due giuristi con tutto il gruppo del Mulino. Già nel 1954, Gino Giugni, che entrerà come socio in Associazione nel 1968, fu uno degli estensori della Relazione introduttiva al Primo convegno amici e collaboratori del Mulino.

Se Giugni è dunque protagonista nel gruppo del Mulino, certo non lo è solo come autore. A cominciare proprio dalla rivista, essendone a più riprese anche ideatore come parte del Comitato di direzione: tra il 1953 e il 1954, prima, e tra il 1970 e il 1973, in un secondo tempo. Ma diversi restano gli articoli da lui firmati, oltre a quello citato in apertura scritto con Federico Mancini: un anno dopo la fondazione della rivista, nel 1952 (sul n. 14), scrive Il “ragionevole capitalismo” di John R. Commons e, nel 1956 (n. 51/52), Esperienze corporative e post corporative nei rapporti collettivi di lavoro in Italia), seguito da Contrattazione aziendale e democrazia industriale (sul n. 4).

Dopo questi primi contributi che si ascrivono alla stessa fase fondativa del diritto del lavoro come disciplina, con data anteriore a un’opera vero spartiacque tra passato e futuro come L’introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, del 1960, Giugni torna a scrivere nel 1968 con Federico Mancini per l’editore il Mulino, l’Introduzione in I licenziamenti nell’industria italiana e, nello stesso anno, l’Introduzione a Contrattazione e partecipazione di Umberto Romagnoli. Non a caso è attivo anche nelle pubblicazioni in “Politica del diritto” fondata insieme a Stefano Rodotà nel 1970 (insieme a Giuliano Amato, Sabino Cassese, Federico Mancini e Giovanni Tarello), sviluppo ulteriore di quel cenacolo di intellettuali raccolti intorno al gruppo editoriale.

Ma è con la rivista madre che prosegue fecondo il rapporto editoriale. Nel fatidico 1970, l’anno in cui lo Statuto dei lavoratori, che com’è noto così tanto deve al lavoro di Giugni, diventa legge, esce L’autunno «caldo» sindacale e, tre anni dopo, Il rinnovo del contratto. Sono questi gli anni in cui Giugni rientra a lavorare nel Comitato di direzione. Da autore tornerà un’ultima volta nel 1980, pubblicando il suo ultimo contributo dedicato alle Relazioni industriali in Italia: punto e a capo. Negli anni successivi arriveranno, sempre editi al Mulino, un volume di scritti (Lavoro legge contratti) e il suo contributo su Giovanni Tarello e il diritto del lavoro (in L’opera di Giovanni Tarello nella cultura giuridica contemporanea, a cura di S. Castiglione), entrambi nel 1989.

Ma il suo lavoro bolognese si manifesta anche con la sua attiva collaborazione a «Lavoro e diritto», la rivista nata nel 1987, «centro di aggregazione di metodi innovativi per organizzare la cultura giuridica del lavoro mantenendo intatto il rigore metodologico della tradizione giuslavoristica», con la quale pubblica Lo Statuto dei lavoratori vent’anni dopo (n. 2/1990) e Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali: problemi di diritto transitorio (n. 2/1991). La lunga marcia della concertazione (2003) e La memoria di un riformista (a cura di A. Ricciardi, 2007, Bologna) sono gli ultimi lavori di Giugni pubblicati con l’editore.

Maneggiare con cautela è un’avvertenza scontata per chiunque si avvicini a un profilo intellettuale tanto ricco e stimolante per intere generazioni di giuristi e giuriste del lavoro. Solo gli amici e gli allievi, diretti ed indiretti, di Gino Giugni – del quale quest’anno ricorre il decennale della morte – hanno titolo per scrivere riflessioni personali o di Scuola (il contributo più recente è quello di R. Voza, Il coraggio dell’innovazione, uscito quest’anno per Cacucci con prefazione di S. Sciarra). Ma un manifesto culturale del diritto del lavoro in trasformazione è patrimonio comune, perché sempre attuale è il messaggio originario di cui si sono resi interpreti. Senza dimenticare che non soltanto di scritti si tratta, ma che di vere rappresentazioni simboliche di vita politica attiva (il già citato progetto dello Statuto dei lavoratori nel 1970) e altre esperienze qualificanti come la presidenza della seconda Commissione di Garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali nel 1995, senza dimenticare la lunga attività di ministro del Lavoro, quello che portò, in particolare, alla stesura del Protocollo sulla politica del redditi nel 1993 con Carlo Azeglio Ciampi come presidente del Consiglio.

L’elenco degli scritti è funzionale a comprendere la trasformazione metodologica del diritto del lavoro sostenuta nelle pagine del Mulino e del suo editore, la sede ideale in cui si è affermata nel passato e continua a riconoscersi nel presente la necessaria permeabilità tra vita sociale e università di cui Gino Giugni e Federico Mancini con il loro articolo-manifesto del 1954 citato in apertura sono gli architetti, antesignani curiosity driven, testimonial di fenomeni di contaminazione tra saperi che l’internazionalizzazione degli studi facilita, oggi traducibile nella formula di sintesi delle esplorazioni della ricerca interdisciplinare e multidisciplinare arricchita da innovazione metodologica.

Certo, come ricorda Paolo Grossi nella raccolta di scritti con cui il «Giornale di diritto del lavoro» (n. 2/2007) ha omaggiato il fondatore e primo direttore nel suo ottantesimo compleanno, il diritto del lavoro all’epoca volta pagina perché Giugni assegna al giurista «un ruolo attivo di interprete e non già quello passivo di esegeta […] attentissimo ai segni dei tempi e al mutamento economico-sociale, consapevole dei nuovi bisogni affioranti e pertanto mediatore fra questi e consolidazioni normative decrepite o, comunque, incapaci di ordinare le nuove figure emergenti» (Gino Giugni nella scienza giuridica italiana del Novecento).

Consapevoli che il «mondo esterno» non può essere interpretato – neanche a farlo apposta, in un’interessante interazione tra storia del diritto e neuroscienze – attraverso, come ha scritto G. Cazzetta, «la sola fotografia degli eventi immessi nella memoria a breve termine; una fotografia questa tanto ricca di forme e dettagli quanto evanescente, inesorabilmente destinata a diventare vuota» (Giuslavoristi e costruzione della memoria nell’Italia Repubblicana, in Diritti e lavoro nell’Italia Repubblicana, in Per la storia del pensiero giuridico moderno, 2009).

Il manifesto del 1954 rimane una bussola anche nella moderna complessità. Non solo a Bari. Non solo a Bologna.