Non si riesce a star zitti quando si vede l’università pubblica italiana descritta come un’associazione a delinquere. Un sistema malavitoso e omertoso che fa strage del merito dei giovani ricercatori, costretti a tacere e a subire umiliazioni oppure riparare all’estero. Di nuovo, il quotidiano “la Repubblica” ci ha riproposto questa rappresentazione fallace del mondo accademico.

Il genere è ormai noto. Ci sono degli innovatori che hanno creato un filone giornalistico di successo: quello della casta. Utile per smascherare i costi eccessivi della politica e della corruzione diventata sistema. Successivamente, però, è diventato un cliché e viene applicato quasi-meccanicamente e riprodotto da giornalisti-epigoni in settori diversi. Con livelli di sofisticazione argomentativa via via decrescente.

Io credo che questa deriva vada arginata. Si tratta di un giornalismo di tendenza, superficiale e impressionistico, che cerca sempre nuove caste da abbattere, perché con queste campagne scandalistiche si costruiscono carriere e facili popolarità. Viene portato avanti con dubbia professionalità (senza conoscere bene l’argomento trattato) e senza un apparente interesse per la fondatezza di quanto viene scritto. Perché il criterio di successo di queste pseudo-inchieste non pare più ispirato alla “verità dei fatti”, ma solo alla denuncia e ai like che ne discendono. Viene così forgiato un vero e proprio stile giornalistico alimentato da professionisti dell’indignazione. Un genere pernicioso e corrosivo, che avvelena il dibattito pubblico. Almeno quello sull’università, di cui mi occupo. Per fortuna questo virus non ha attaccato tutta la stampa italiana.

L’ultima inchiesta di “Repubblica” intende processare l’università italiana. Già il titolo fa presagire il giustizialismo di fondo dell’articolo. Poiché ci sono 191 docenti sotto inchiesta della magistratura per vicende concorsuali, questi numeri fanno intravedere un vero e proprio sistema che affligge gli atenei italiani dalle Alpi alle piramidi. Stavolta non si parla indistintamente di tutti i baroni, come nell’occasione precedente. Ora si indica qualche settore scientifico. Come si fa a spiegare che 191 indagati (ancora non condannati quindi) su 57 mila accademici rappresenta un tasso dello 0,33%? Ovviamente ogni caso di malaffare va denunciato e combattuto con forza. Ma non è una percentuale un po’ bassina per accusare tutti gli accademici, o anche solo tutti i professori ordinari italiani? È il teorema che lascia perplessi, non la denuncia dei casi di mala-università. Che vanno assolutamente combattuti. Nel 2017 i condannati (con sentenza di primo o secondo grado) in Italia erano lo 0,34%. Chi si sognerebbe di dire che gli italiani sono tutti delinquenti?

La perla delle perle (l’unica vera novità dell’articolo), tuttavia, è l’interpretazione che viene suggerita sul calo degli immatricolati di quest’anno. Come direbbe un comico intelligente, la qualunque può essere usata per processare l’università. Gli atenei di Milano e di Torino hanno appena avviato una ricerca scientifica per capire perché all’aumento delle immatricolazioni registrato nel periodo pandemico sia seguito il calo di quest’anno. Ma perché sprecare tempo e risorse? I giornalisti dell’inchiesta hanno già capito tutto: colpa dei baroni e della mala-università. Ma come può funzionare il nesso causale descritto nell’articolo? C’è forse stato un aumento impressionante della corruzione e del malaffare proprio l’anno scorso e gli studenti, grazie alle inchieste della magistratura e alle campagne giornalistiche, si sono finalmente accorti del marcio in Danimarca e stanno scappando a gambe levate?

Alcune indagini sui concorsi sono inquietanti, e naturalmente la magistratura deve andare fino in fondo. L’università italiana, inoltre, deve riflettere sul suo sistema di reclutamento. Ma le campagne scandalistiche ostacolano questi obiettivi

È l’evidente assurdità di simili ragionamenti che lascia attoniti e porta a dubitare della qualità di inchieste giornalistiche sempre meno approfondite e documentate. Alcune indagini sui concorsi, che coinvolgono anche rettori, sono inquietanti ed è bene che la magistratura vada fino in fondo. L’università italiana, inoltre, deve avviare una riflessione sul sistema di reclutamento, ad oltre 10 anni dall’ultima riforma. Tutte le riforme vanno monitorate, messe a punto e cambiate se non hanno funzionato bene. Le campagne scandalistiche, tuttavia, ostacolano proprio questo obiettivo. Spingono tutti gli accademici (me compreso) a una reazione difensiva che non aiuta il ragionamento. Piuttosto inducono chi lavora seriamente nelle università all’amarezza, allo sdegno e alla rabbia. Ma ancor più grave e pericoloso è che favoriscono l’improvvisazione di provvedimenti d’urgenza presi sotto la pressione dell’indignazione di una opinione pubblica male informata.

Ho parlato in altri articoli, su questa stessa rivista, della condizione di salute del sistema universitario (In difesa dell’Università italiana; Diamo i numeri). A mio avviso non sta così male, anche se non sta propriamente bene. Ha però buone performance, riconosciute internazionalmente. I corsi di laurea e gli insegnamenti vengono valutati sistematicamente dagli studenti e, insieme alle pubblicazioni, da un’agenzia autonoma (l’Anvur). La trasparenza nei concorsi – almeno nei settori che conosco più da vicino – è notevolmente migliorata, soprattutto per il reclutamento in ingresso dei ricercatori a tempo determinato (rinnovo l’invito a leggere i cv di chi vince i concorsi non solo di chi li perde). Anche la nostra capacità di riportare a casa i cosiddetti “cervelli in fuga” è aumentata, grazie a specifiche misure di agevolazione introdotte negli ultimi anni. Inoltre, il 30% dei finanziamenti ordinari degli Atenei dipendono da una premialità che è legata alla qualità della ricerca e della didattica, per cui se reclutano male vengono “puniti” nel portafoglio. Finalmente stanno pure arrivando i fondi per la ricerca, grazie al Pnrr. Insomma affiora un po’ di speranza.

Colpisce il silenzio assoluto dei vertici istituzionali dell'università italiana: non c'è niente da replicare a queste inchieste che mettono sotto accusa tutto il mondo accademico?

Di tutto ciò non si trova traccia sui giornali. Solo un concorso truccato occupa le prime pagine. Il motivo per cui – nel silenzio di molta stampa – una classe dirigente irresponsabile abbia permesso che l’Italia sprofondasse in fondo alla classifica dei Paesi avanzati, per finanziamenti all’università e numero di laureati, richiede ancora una spiegazione storica adeguata. Si possono fare delle ipotesi, ma non è il caso di dilungarsi ora. Perché ciò che mi preoccupa maggiormente è la deriva illiberale che intravedo in queste campagne scandalistiche senza contraddittorio, che sopprimono il pluralismo delle idee e producono spesso disinformazione. Lo avete notato? Non vi trovano mai spazio le voci e le argomentazioni contrarie alla tesi che viene sostenuta. E mi colpisce il silenzio assoluto dei vertici istituzionali dell'università italiana. La ministra, la Crui, il Cun non hanno niente da replicare a queste inchieste che mettono sotto accusa tutto il mondo accademico? Orsù, battete un colpo!