La prudenza non è mai troppa. Per l’ennesima volta l’Amministrazione americana, per il tramite del suo segretario di Stato John Kerry, coadiuvato da Frank Lowenstein, consigliere per gli affari mediorientali, cerca di ridare un po’ di fiato a un’ipotesi di trattativa di pace tra israeliani e palestinesi. I tentativi esercitati dal 2000 ad oggi, l’anno in cui tutto sembrò precipitare, a un passo dalla storica firma a Camp David di quello che doveva essere invece un trattato risolutivo, sono stati molti. Se ne è perso quasi il conto, essendo inesorabilmente franati ancora prima di avere alimentato speranze così come delusioni.
Da allora, infatti, lo stallo è subentrato come elemento imperante. E con esso una sorta di apatia inerziale, che non ha fatto altro che incistare i tanti problemi che derivano dalla mancata soluzione di molteplici dispute sulla terra, sull’acqua, sulla legittimità e la reciprocità delle scelte e così via. A mutare, invece, è stato l’ambito geopolitico nel quale il contrastato rapporto tra i due popoli si inserisce. La molteplicità di crisi in corso, a partire da quelle siriana ed egiziana, e le irrisolte questioni che la «primavera araba» ha sollevato, sono destinate ad incidere, anche a breve, sulle prospettive sia di Israele che dell’Autonomia palestinese. Ancora una volta Washington, oggi più che mai fragile nel Mediterraneo, ha bisogno di portare a casa qualcosa, per dimostrare agli interlocutori internazionali che il suo potere di condizionamento non si è del tutto consumato.
Ancora una volta Washington, oggi più che mai fragile nel Mediterraneo, ha bisogno di portare a casa qualcosa, per dimostrare agli interlocutori internazionali che il suo potere di condizionamento non si è del tutto consumato
Kerry, in ciò sostenuto dalla Giordania, da almeno due decenni divenuto partner diplomatico di alta affidabilità, ha ricordato a Israele la rilevanza dell’iniziativa intrapresa dalla Lega araba nel 2002, quando aveva offerto a Gerusalemme un accordo «definitivo» con cinquantasette Stati arabi e musulmani, a patto di tornare nei confini del 1967 e di concorrere ad una soluzione negoziata del problema dei rifugiati. Al solito i nodi della disputa vertono su alcuni passaggi cruciali: le linee di eventuali confini in divenire, con gli obbligati aggiustamenti territoriali; il destino di buona parte degli insediamenti ebraici in Cisgiordania; il problema dello sfruttamento di alcune risorse strategiche, a partire dell’acqua; la questione della legittimità dell’uno, lo Stato degli ebrei, ma anche dell’altra, l’autorità palestinese, agli occhi soprattutto degli interlocutori e dei protagonisti della politica mediorientale.
Poiché se per Israele la nascita di uno Stato palestinese costituirebbe una svolta radicale rispetto alle politiche del fatto compiuto, fin qui poste in campo riguardo al futuro della Cisgiordania e della comunità araba locale, per i palestinesi (e i paesi arabo-musulmani circostanti) il riconoscimento della legittimità dell’esistenza di quella che per molti rimane ancora una provvisoria «entità sionista» segnerebbe una rottura simbolica di valore incalcolabile. Nel novero delle cose da fare oggetto di trattativa ci sono poi i detenuti palestinesi trattenuti nelle carceri israeliane, per un centinaio dei quali il governo israeliano ha già disposto la progressiva scarcerazione.
In realtà, a conti fatti, Abu Mazen e Benjamin Netanyahu non possono permettersi il lusso dell’inazione. Benché la fiducia in una soluzione negoziata sia scarsa, se forse non nulla, da entrambe le parti – aderendo quindi più ad uno stanco rituale che non ad un’energica azione diplomatica –, rimane il fatto che le trasformazioni in corso nella regione non possono lasciare indifferenti i due leader. Che scontano, ognuno per se stesso, i problemi che derivano dal dovere tenere conto delle coalizioni e delle alleanze di governo di cui sono espressione. Se a Gerusalemme una componente considerevole del Likud e delle destre non vuole sentire parlare di accordo, a meno che non sia al totale ribasso per i palestinesi, a Ramallah gli scettici di principio abbondano, ritenendo che lo status quo potrebbe, in futuro, rivelarsi maggiormente premiante in sé, ossia risultando demograficamente insostenibile per Israele.
Benché la fiducia in una soluzione negoziata sia scarsa, se forse non nulla, da entrambe le parti, rimane il fatto che le trasformazioni in corso nella regione non possono lasciare indifferenti i due leader
Le trattative proseguono quindi silenziosamente, ad Amman e a Washington, al riparo degli sguardi del grande pubblico. Contro di esse Hamas, che governa Gaza, ha scagliato il suo anatema. Ma anche questo era prevedibile. Improbabile comunque che si arrivi, anche nella migliore delle ipotesi, ad un accordo-quadro mentre è più plausibile che il ritorno alla negoziazione ponga le premesse per futuri dialoghi di pace su singole questioni principe.
Riproduzione riservata