Scilla e Cariddi nella valle del Giordano. Tra non molti giorni, il Segretario di Stato John Kerry potrebbe decidere di trarre le conclusioni del deludente negoziato di pace tra israeliani e palestinesi. Nonostante le energie profuse dai mediatori statunitensi, impegnati da mesi in una intensa attività di shuttle diplomacy, infatti, i colloqui si sono arenati prima ancora di entrare nel vivo. Lo stallo riguarda tanto la forma quanto la sostanza dei negoziati, e rischia di trasformarsi nell’ultima occasione persa per una soluzione basata sul principio “due popoli, due Stati”.

Nella sostanza, il disaccordo riguarda il controllo e la gestione dei confini a est della Valle del Giordano. Il governo israeliano vuole mantenere i suoi soldati lungo il confine tra futuro Stato palestinese e Regno di Giordania perché teme che possa diventare terreno di scorribande per milizie rivoluzionarie palestinesi, secondo un disegno che fu per la prima volta tracciato da Levi Eshkol nel lontano 1968. I palestinesi, al contrario, esigono piena sovranità sull’intero territorio del futuro Stato, frontiere comprese.

Il governo israeliano vuole mantenere i suoi soldati lungo il confine tra futuro Stato palestinese e Regno di Giordania perché teme che possa diventare terreno di scorribande

Le distanze tra le parti sono più marcate di quelle manifestate nel corso dei negoziati di Oslo II e sottoscritte da israeliani e palestinesi nei “Clinton parameters” del dicembre 2000. E in parte riflettono le mutate condizioni del conflitto in questa porzione di Cisgiordania. Un esempio rappresentativo è quello dell’enclave israeliana di Maskiyot, nel nord della Valle del Giordano. In origine avamposto militare israeliano, dal 2005 Maskiyot è stato trasformato da coloni ultra-ortodossi evacuati da Gaza nell’epicentro del radicalismo sionista nella Valle del Giordano. Questi coloni rivendicano la proprietà della terra attraverso il persuasivo ruolo giocato dal partito La Casa Ebraica (The Jewish Home) di Naftali Bennett al tavolo di governo. È dunque dubbia la tesi che vorrebbe Israele interessata alla Valle del Giordano in ragione di considerazioni legate esclusivamente alla sicurezza della frontiera est dello Stato ebraico. Netanyahu sembra più che altro mosso dalla narrazione della Grande Israele, di cui avverte i forti richiami nell’intimo della sua storia personale e familiare, e che persegue attraverso l’uso sapiente e spesso spregiudicato degli strumenti a sua disposizione per il mantenimento dello status quo nella regione.

Per un altro verso, considerando essenzialmente territoriale e di sicurezza un conflitto – quello sul controllo della Valle del Giordano – che oggi è ideologico anche per parte israeliana, i mediatori statunitensi hanno con tutta probabilità ristretto la gamma delle opzioni negoziali di cui disporre nel corso delle trattative. Tuttavia, non è necessario scomodare Roger Fisher assieme agli altri padri della negoziazione per sapere che un tema sempre più politico, simbolico e di principio quale lo status della Valle del Giordano nel futuro Stato palestinese, non può essere realisticamente affrontato singolarmente, come fosse una variabile indipendente. Può, anzi deve essere scomposto in fattori (territoriali, ideologici, di sicurezza, economici) ed esplorato mettendo quei fattori in relazione con gli altri temi del conflitto (sovranità sul Monte del Tempio, rifugiati, confini, Gaza, etc.), per creare un ventaglio di opzioni negoziali più ampio e originale. Ed è forse proprio questo ciò che è mancato a Kerry, nonostante le migliori intenzioni: la possibilità di disporre di tante frecce al suo arco, e non solo delle frecce ormai spuntate rimaste in dote da venti anni di negoziati – da Oslo 1994 a Washington 2014 – sul futuro della Valle del Giordano.

È difficile ricordare un altro tempo nella storia recente del Medio Oriente in cui le condizioni per una soluzione permanente di questo conflitto siano state così favorevoli allo Stato d’Israele

È difficile ricordare un altro tempo nella storia recente del Medio Oriente in cui le condizioni per una soluzione permanente di questo conflitto siano state così favorevoli allo Stato d’Israele: il campo musulmano è diviso e indebolito dall’interminabile guerra tra sunniti e sciiti; l’asimmetria di mezzi e risorse tra israeliani e palestinesi è tuttora abissale; e Gerusalemme può contare sul solidale sostegno del broker, oltre che della prima potenza mondiale: gli Stati Uniti. Sprecata quest’ultima tornata di negoziati, il testimone dell’iniziativa politica potrebbe definitivamente passare dagli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E la campagna di screditamento di Israele nei consessi internazionali raggiungerà un nuovo picco. Un’ipotesi certamente sgradita tra gli israeliani e invisa agli amici di Israele nei cinque continenti, ma di cui Netanyahu con i suoi "no" potrebbe paradossalmente finire per essere l’involontario artefice.