L’Intifada degli Haredim. I laici contro gli ultra-ortodossi o, se si preferisce, i gialli (in comuni abiti civili) contro i neri (vestiti con il caftano nonché adornati da curiosi cappelli di pelliccia, indossati anche d’estate), nelle varianti, tra le tante possibili, dei razionalisti contro i bigotti, degli utilitaristi contro i superstiziosi e così via. La lotta accesasi negli ultimi mesi a Gerusalemme, tradottasi in un crescendo di scontri di piazza, ha messo a nudo un nervo scoperto d’Israele che rimanda alle sue origini e, soprattutto, al suo statuto di comunità politica nel medesimo tempo «democratica ed ebraica».
Per certuni quest’ultima definizione è un ossimoro, richiamando una concezione etnica dello Stato medesimo che fa a pugni con l’idea di cittadinanza. Ma cosa è successo di così importante? Due episodi hanno creato forti disagi. Il primo: la municipalità gerosolimitana ha deciso che un parcheggio (tanto più necessario in una città che soffre, nel suo centro, di una congestione permanente del traffico) fosse tenuto aperto anche durante lo Shabbat, il giorno di sabato, considerata festività consacrata al rispetto di Dio e quindi, per i praticanti, destinata alle attività che non ledono l’ortoprassi religiosa. Tra queste, il blocco della circolazione come degli impegni lavorativi, intesi, l’una e gli altri, come una violazione del principio del riposo. A ciò si è poi aggiunto il secondo “fattaccio”, l’arresto di una donna, appartenente ai Toldot Aharon, un gruppo ebraico fondamentalista e antisionista, accusata di avere brutalmente maltrattato uno dei suoi cinque figli.
La rumorosa protesta dei settori più accesamente ultra-ortodossi, organizzati come falangi, piccole ma compatte, è immediatamente trascesa in una serie di scontri fisici contro la polizia
Nel primo come nel secondo caso la rumorosa protesta dei settori più accesamente ultra-ortodossi, organizzati come falangi, piccole ma compatte, è immediatamente trascesa in una serie di scontri fisici contro la polizia. Si è trattato di vera e propria guerriglia urbana, che ha coinvolto i quartieri a più alta densità di Haredim, ossia gli ebrei che si rifanno ad una religiosità molto intensa ma, soprattutto, che appartengono a gruppi settari, organizzati perlopiù in clan raccolti intorno a figure di rabbini carismatici. Gli Haredim, che non vanno confusi con i credenti tradizionalisti (più genericamente definiti come «ortodossi»), vivono separatamente dal contesto sociale cittadino.
Pur beneficiando di tutte le opportunità offerte loro dallo Stato d’Israele, lo considerano sostanzialmente privo di legittimità poiché in disaccordo con le Scritture. A Gerusalemme convivono, non senza difficoltà, circa 800.000 persone, calcolando la variabilità dei confini municipali, più volte rivisti in chiave estensiva all’interno di una strategia urbanistica volta ad incrementare le dimensioni dell’area metropolitana in via di “ebraicizzazione”. La qual cosa implica non solo l’incorporare il territorio ad est della città dentro quello d’Israele, ma anche il renderlo omogeneo da un punto di vista etnico, favorendo l’insediamento ebraico. Alle rilevazioni di circa due anni fa risultava che la popolazione fosse composta al 68% da ebrei, al 30% da musulmani, e per la restante parte del 2% da cristiani, con una densità statistica di 4.000 abitanti per chilometro quadrato. La prevalenza numerica dei primi è da sola, tuttavia, un dato che non dice molto se non si scorpora l’elemento dell’appartenenza comunitaria, laddove un terzo degli ebrei gerosolimitani fa parte dei gruppi ultra-ortodossi. La costante crescita di questi ultimi è garantita dall’elevata natalità delle loro famiglie. Le donne hanno in media quattro figli, di contro al basso tasso di natalità degli israeliani, assimilabile a quello dei paesi a maggiore sviluppo economico.
Gli Haredim vivono modestamente se non in povertà, dedicandosi allo studio del corpus dei Libri Sacri dell’ebraismo
Gli Haredim vivono modestamente se non in povertà, dedicandosi allo studio del corpus dei Libri Sacri dell’ebraismo. Molte delle famiglie sopperiscono alla mancanza di lavoro con il sistema di Welfare State di un paese sulla cui necessità storica, il più delle volte, hanno dichiarato di essere in disaccordo. Le intemperanze delle settimane passate hanno rianimato il confronto tra laici e religiosi (una spaccatura che accompagna da sempre la società israeliana) su quale debba essere la declinazione da dare alla “ebraicità” che viene identificata come il carattere peculiare, insieme alla democraticità, della nazione fondata da Ben Gurion. I primi vivono con disagio le crescenti richieste di quelle componenti del paese che si rifanno all’ebraismo come dimensione esclusivamente religiosa, cercando invece di valorizzare il tratto secolare del progetto sionista. I secondi delegittimano i primi, richiamandoli al fatto che ciò che è definito ebraico non può sfuggire ad una accezione religiosa, laddove l’ebraismo è soprattutto un insieme di regole la cui adozione definisce una appartenenza. Il conflitto di interpretazioni è secco e netto, demandando non a ipotesi di scuola ma alla natura stessa del paese nato nel 1948. Poiché il vero problema per Israele è di capire come nell’età della globalizzazione si possa tenere insieme il particolarismo di una identità religiosa con l’universalismo della cittadinanza.
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