Schede e sassi. Dopo una estate trascorsa nella fragile speranza che alla fine i dissidi interni sarebbero stati ricomposti Hamas e il Fatah, le due maggiori organizzazioni politiche palestinesi, sono tornate sul piede di guerra. Le mediazioni egiziana e giordana non sono riuscite ad avere ragione dei troppi dissensi che polarizzano, mettendoli l’uno contro l’altro, il movimento che fu di Arafat e il gruppo islamista costituito dallo sceicco Yassin.
Tale contrapposizione è non solo d’interesse (laddove entrambi mirano ad una rappresentanza integrale dei palestinesi) o di taglio ideologico (laica il primo, religiosa la seconda) ma territoriale, avendo spaccato in due, come una mela tagliata a metà, i Territori palestinesi. Hamas governa la striscia di Gaza, dopo avervi vinto, nel 2006, le elezioni legislative e avere scacciato a forza, l’anno successivo, gli odiati “cugini” del Fatah; il quale, dopo avere perso l’esclusività della rappresentanza della popolazione locale, si è trincerato in Cisgiordania, diventata la sua roccaforte.
La concorrenzialità politica si è velocemente tradotta in una serie di dissapori inconciliabili
La concorrenzialità politica si è velocemente tradotta in una serie di dissapori inconciliabili, molto spesso legati al grado di influenza esercitato dai singoli signorotti locali, il cui stile è sempre di più feudale. Dopo le violenze di due anni fa, nel corso delle quali si arrivò al deliberato assassinio di militanti ed esponenti dell’una e dell’altra fazione, si era tentata, per parte degli stati arabi circostanti, una difficile ricucitura che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto garantire quanto meno una pace fredda, da sottoscriversi al Cairo a luglio, nel nome del comune interesse per il futuro dei Territori palestinesi. Così non è stato e dopo otto round di trattative senza risultati le ostilità sono immediatamente riprese.
Se Abu Mazen, sempre più rais dimezzato dell’Autorità nazionale palestinese, ha convocato per il 24 gennaio 2010 le elezioni legislative per il rinnovo del Parlamento dei Territori (nel quale Hamas ha oramai la prevalenza di seggi), abbinandole a quelle presidenziali, dopo che la scadenza del suo mandato, fissata per gennaio 2009, era stata prorogata di un anno, la risposta dei fondamentalisti non si è fatta attendere, dichiarando per bocca di alcuni dei suoi portavoce che il loro intendimento è quello di boicottare il turno elettorale. Peraltro, dopo i ripetuti episodi di una violenta conflittualità infrapalestinese, si sono aggiunte anche le preoccupanti immagini provenienti dalla Spianata del Tempio, a Gerusalemme, dove un nutrito gruppo di fedeli musulmani aveva dato vita a ripetute sassaiole contro la polizia israeliana per diversi giorni ad ottobre. L’oggetto del contendere erano le dichiarazioni fatte da esponenti del movimento religioso ebraico «Eretz Israel Shelanou» («la terra d’Israele è nostra») che a gran voce hanno chiesto che fosse permesso agli ebrei di potere pregare sul sagrato del «Duomo della Roccia» e della moschea di Al Aqsa, interdettogli dagli stessi rabbini per ragioni di sicurezza.
Nella richiesta avanzata dal gruppo integralista ebraico molti palestinesi di Gerusalemme est, e con loro le autorità religiose del complesso musulmano, che sorge su parte delle vestigia del Tempio di Gerusalemme, distrutto dai romani nel 70, hanno voluto leggere il primo passo per una “conquista sionista” del sito, reputato come tra i più importanti dalla religione islamica. In verità questi timori non datano a tempi recenti, avendo piuttosto accompagnato l’evoluzione del conflitto tra ebrei ed arabi, dal momento della sua nascita, alla fine dell’Ottocento, ad oggi.
La politica israeliana, avviata nel 1967, di incorporare Gerusalemme est, e le sue ampie propaggini suburbane, all’interno dello Stato ebraico è stata poi ragione di molteplici tensioni
La politica israeliana, avviata nel 1967, di incorporare Gerusalemme est, e le sue ampie propaggini suburbane, all’interno dello Stato ebraico è stata poi ragione di molteplici tensioni. Basti pensare che la cosiddetta «seconda intifada», non a caso conosciuta anche come «intifada Al Aqsa», che ha causato non meno di 6.000 morti in una decina d’anni, esplose con una violenza inusitata alla fine del settembre del 2000, dopo che Ariel Sharon, leader del Likud, aveva passeggiato sulla Spianata delle moschee. Si tratta quindi di un luogo simbolo, per certi aspetti estremo, non solo per le due religioni monoteiste ma anche del conflitto tra i due popoli. La sua potenza evocativa gli deriva dall’essere indivisibile: il muro occidentale, il Kotel, dove gli ebrei vanno a pregare, costituisce la cinta settentrionale di contenimento che sostiene la Spianata. A pochi metri di distanza devono convivere, in spazi già di per sé ridotti, due religioni a volte insofferenti l’una dell’altra.
Arrivare all’ipotesi di dividere il complesso architettonico è peraltro pressoché impossibile, proprio per l’assenza di soluzioni di continuità. Semplicemente, i luoghi sacri si addossano l’uno all’altro, così come avviene tra persone. È ciò parte della stessa natura di Gerusalemme, città della convivenza problematica ancorché obbligata. Chi dovesse trovare la chiave per dare una risposta positiva al dilemma meriterebbe qualcosa di più di un Nobel per la pace.
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