Salvate il soldato Shalit. Uno contro mille: più o meno è questa la proporzione dello scambio che, qualora avvenisse, segnerebbe un turning point nella storia politica e diplomatica di Israele. L’uno è il caporale Gilad Shalit, rapito il 25 giugno 2006 da Hamas, il movimento islamista che controlla la striscia di Gaza. I mille (o giù di lì) sono per Israele dei «terroristi» mentre per Hamas dei «fratelli», detenuti nelle carceri dello Stato ebraico per varie ragioni tra le quali, molto spesso, la corresponsabilità diretta in fatti di sangue.
A Shalit Gerusalemme aveva dedicato ben più di una messa, avendo di fatto promosso la campagna militare che in tempi recenti, tra il dicembre e il gennaio del 2009, l’ha vista contrapporsi alle falangi fondamentaliste, nel mentre l’intera Striscia di Gaza veniva duramente assediata, alla ricerca di segni di vita del giovanissimo prigioniero (che oggi non ha più di ventitré anni). Ne è venuto fuori poco, se non una ulteriore conferma della netta, inconciliabile contrapposizione agli islamisti. Hamas non riconosce il diritto all’esistenza dell’«entità sionista»; Gerusalemme non vuole trattare con gli uomini di Ismail Haniyeh finché essi non abbandoneranno i propositi distruttivi che nutrono nei suoi confronti.
"Salvare il soldato Shalit", da tre anni a questa parte è divenuto in Israele un imperativo nazionale
«Salvare il soldato Shalit», da tre anni a questa parte è divenuto in Israele un imperativo nazionale, poiché intorno alla sua dolorosa vicenda si gioca oramai qualcosa di più e di diverso del mero destino di un giovane uomo. Coloro che a suo tempo lo rapirono, a Keren Shalom, in territorio israeliano, ben sapevano quanto una attenta gestione della sua cattività avrebbe fruttato in termini politici. Così, attraverso un’oculata regia che ha sommato e miscelato allo strazio dei familiari il cinismo dei rapitori, per diverso tempo sono state lasciate trapelare e circolare le voci più disparate riguardo al suo destino: è vivo; è morto; è ferito più o meno gravemente; sta bene; è a Gaza; è in un paese islamico; sta per essere liberato; non verrà più liberato e così via. Conta in ciò il fatto che il soldato sia giovane e il suo stesso volto – ritratto in poche foto, fatte circolare un po’ ovunque, quasi si trattasse di una moderna icona - demandi più all’adolescenziale «tempo delle mele» che non alla rude immagine di un militare. Shalit, peraltro, è una delle centinaia di migliaia di israeliani che ogni anno partono per la leva. Per Hamas ciò ha rappresentato un “bottino” di ulteriore valore poiché è noto agli islamisti quale sia il meccanismo alimentato dalla rischiosa partecipazione dei giovani coscritti alle attività di contenimento della lotta armata da questi praticata contro Israele. Paese nel quale, a fronte della crisi delle più tradizionali organizzazioni politiche, si è andata confermando a partire dalla guerra del Libano del 1982, quando emerse dirompente sulla scena nazionale il movimento «Shalom Akhshav» (Pace adesso), la lievitante importanza dei gruppi di opinione, soprattutto di quelli che raccolgono i familiari dei militari. Massimo fu tale grado di coinvolgimento nella determinazione del «ridispiegamento» dell’esercito israeliano in Libano nel maggio del 2000, quando l’allora premier Ehud Barak abbandonò frettolosamente nelle mani del movimento integralista Hezbollah il controllo della regione meridionale, pressato com’era anche dal movimento di opinione composto dalle madri dei giovani di leva, esposti – si disse per parte loro, a viva voce – ad un inutile rischio in un paese straniero ed ostile.
Ci si chiede se il prezzo di una vita sia quello di altre vite, ovvero di quanti un giorno potrebbero essere assassinati da coloro che Israele si vede costretta a rimette in libertà
Oggi la discussione intorno a Shalit ha ripreso vigore e ha coinvolto tutta la società israeliana. Ci si chiede se il prezzo di una vita sia quello di altre vite, ovvero di quanti un giorno potrebbero essere assassinati da coloro che Israele si vede costretta a rimette in libertà. Esiste un precedente quando, nel 1985, millecentocinquanta prigionieri, allora appartenenti perlopiù all’Olp, erano stati rilasciati in cambio di tre soldati. La stessa cosa era poi avvenuta in tempi più recenti, di contro alla restituzione delle spoglie di alcuni militari morti in Libano. Ma tra i nomi dei potenziali liberandi c’è adesso anche quello di Marwan Barghouti, leader carismatico della prima intifada e spina nel fianco dell’Autorità nazionale palestinese, in crisi di legittimità a causa dello stallo politico non meno che della corruzione da cui è penetrata. Barghouti, liberato da Hamas, costituirebbe per il Fatah, l’asfittico partito che fu di Yasser Arafat, un fattore problematico, mettendo in difficoltà la vecchia, gerontocratica dirigenza dell’Olp.
A Gerusalemme ci si interroga poi sulla tenuta del governo di Benjamin Netanyahu, dove una parte non indifferente dei deputati vede con perplessità l’eventualità di uno scambio così oneroso, ritenendo che potrebbe costituire un pericoloso precedente nonché un “tradimento” dei principi ai quali la maggioranza di destra afferma di ispirarsi. Si vedrà come le cose andranno a finire. Di certo rimane l’elevato grado di coinvolgimento emotivo dell’opinione pubblica nazionale così come il precetto militare che afferma che i commilitoni non si abbandonano mai sul campo di battaglia.
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