Il gioco delle anime e dei voti. Nell’eterno tiro alla fune tra Stato e religione, amministrazione dei corpi e gestione degli spiriti che in Israele accompagna il dibattito politico e la discussione collettiva, c’è qualcuno che, dinanzi ai tanti dubbi dei più, sembra sapere opporre algide certezze. Yaacov Neeman, ministro della Giustizia (per volontà di Dio?), dinanzi al folto pubblico di un’ampia assemblea rabbinica, recatosi per rappresentare il governo, al momento di prendere la parola, evidentemente sedotto dalla potenza dell’illustre uditorio, si è prodotto in una filippica che ha raccolto i calorosi assensi degli astanti nonché le sdegnate repliche di una robusta parte della pubblica opinione.

Che cosa è stato detto di così dirompente? Accompagnato dal convinto battimani, tra gli altri, di Ovadia Yossef, capo spirituale del partito ortodosso Shash, di radice sefardita, e di Yona Metzger, attuale titolare della cattedra di grande rabbino aschenazita d’Israele, l’intraprendente Neeman ha dichiarato, letteralmente, che «poco a poco, imporremo ai cittadini d’Israele le leggi della Torah [il Pentateuco, ovvero il Vecchio Testamento] e faremo dell’Halakah [la dottrina codificata della legge ebraica] il criterio che regola la nazione». A sostegno di una affermazione tanto enfatica quanto improbabile, almeno nella sua concreta applicabilità, il ministro ha voluto precisare che «dobbiamo affermare l’eredità dei padri della nazione. La Torah offre la risposta completa a tutte le domande» del presente. L’apprendista teocrate non immaginava certo che se quanto andava dicendo a un nutrito gruppo di rabbini, per così dire “professionisti del mestiere”, trovava il loro convinto assenso, non altrettanto sarebbe accaduto qualora fosse stato reso di pubblico dominio. L’indomani, infatti, la radio di Stato, nel trasmetterlo, ha dato l’avvio a un fuoco di fila di dichiarazioni polemiche, dai toni non solo preoccupati ma anche, e soprattutto, indignati.

Se la giurisprudenza vigente nel Paese è quella propriamente "israeliana", un corpus di norme di diritto positivo, il rapporto che queste intrattengono con il diritto ebraico, che preserva il patrimonio delle tradizioni maturate nel corso di un tempo prevalentemente pre-esilico, è di pura funzionalità strumentale

La prima di queste è stata quella di Tzipi Livni, battagliera leader dell’opposizione, a capo di Kadima, il partito nato per volontà di Ariel Sharon. La Livni ha seccamente liquidato le affermazioni di Neeman sostenendo che esse devono «suscitare l’inquietudine di tutti i cittadini d’Israele», ovvero di quanti credono nei suoi «valori democratici». A sinistra, Chaim Oron, segretario del Meretz, il partito che ha sostenuto l’esperienza degli accordi di Ginevra, una conferenza internazionale tenutasi nel 2003 nel corso della quale esponenti delle comunità israeliana e palestinese si erano impegnati alla definizione in comune delle possibili soluzioni ai tanti problemi dell’agenda del conflitto, ha parlato, senza mezzi termini, di «talebanizzazione in corso nella società israeliana». Ne è derivato un grande imbarazzo, sia del ministro che degli uomini del suo dicastero. Nel comunicato di “precisazione”, che lo staff ha velocemente prodotto e distribuito, si ribadisce che non era intenzione di Neeman sostituire la norma religiosa a quella dello Stato bensì di riaffermare  «l’importanza della legge ebraica nella vita del Paese». Una risposta che, però, ha contribuito a rinfocolare ancora di più le polemiche. Poiché se la giurisprudenza vigente nel Paese è quella propriamente «israeliana», un corpus di norme di diritto positivo, il rapporto che queste intrattengono con il diritto ebraico, che preserva il patrimonio delle tradizioni e delle consuetudini maturate nel corso di un tempo prevalentemente pre-esilico, è di pura funzionalità strumentale. Ossia, lo spazio che il legislatore ha voluto concedere a quest’ultimo è largamente ipotetico, ricavato per esclusione.

Si concreta soprattutto nel ruolo dei tribunali rabbinici nell’ambito del diritto civile, cioè riguardo al matrimonio, al divorzio e alla successione. Che è comunque materia non da poco, tenuto conto che in Israele non è previsto il matrimonio civile (ma è riconosciuto se contratto in altri Paesi), anche se ci si può appellare alla Corte suprema, organismo civile. Detto questo, rimane il fatto che il conflitto tra Stato e religione è aperto pressoché da sempre, essendo consustanziale, nella sua tediosa irrisolvibilità, al dilemma che sta all’origine dell’esperienza della moderna Israele: si tratta di uno Stato degli ebrei o di uno Stato ebraico? Poiché, se nel primo caso si ha a che fare con una comunità politica costituita da ebrei (e non), nel secondo ci si trova invece nel campo di una teocrazia. Il quesito demanda ad una differenza capitale, che è anche quella che corre tra popolo d’Israele (o israelita) e popolo israeliano. Laddove il giudaismo può essere inteso come mera religione o, anche, come nazionalità.

La cittadinanza, nella sua dimensione universalistica, soffre non poco quando viene declinata con rimandi ad appartenenze pregresse rispetto a quella, che si intende come originaria, intercorrente tra individuo e Stato. Non è quindi un caso se le parole di Neeman abbiano immediatamente innescato le risposte piccate dei molti. In un Paese dove lo Stato si definisce «democratico ed ebraico» e nel quale il 44% della popolazione si considera «secolarizzato», il problema di capire dove finisca una sfera di influenza e dove inizi l’altra non rimanda alla narrazione del passato ma alle incertezze del futuro.