Il 30 giugno scorso è morto a Lipsia Christian Führer, uno dei personaggi più significativi del processo di riunificazione della Germania. Il nome, forse poco noto in Italia, del pastore evangelico della Nikolaikirche di Leipzig è parte integrante di quello che è oggi il Paese tedesco. Fu lui a raccogliere, nel 1982, il crescente malessere dei giovani della sua parrocchia verso il regime comunista della DDR; plasmandolo, con pazienza e sagacia, nella forma cristianamente più compatibile al desiderio di ribaltamento di un assetto politico e sociale di stampo dittatoriale e disumanizzante: la preghiera. Führer fu capace di convogliare l’insostenibilità di una condizione civile nella rappresentazione più disarmante dello spirito umano; dando così le mosse a quella che, pian piano, divenne una vera e propria rivoluzione pacifica.
Senza la veglia settimanale di preghiera per la pace, non si sarebbe giunti a quelle manifestazioni civili dell’ottobre del 1989 che portarono, in un mese, alla definitiva caduta del Muro di Berlino. Egli ricondusse sempre il rilievo epocale che si andò condensando intorno alla sua persona alla figura comune dell’essere semplicemente cristiano; intessendo così un vincolo, che probabilmente non abbiamo ancora imparato ad apprezzare fino in fondo, tra il dovere civile della cittadinanza e il dovere religioso della testimonianza. Solo alcune settimane prima della sua morte, era stato annunciato il conferimento a Führer del “Deutscher Nationalpreis”, in occasione del 25º anniversario della riunificazione tedesca. Questo atto di riconoscimento pubblico permette ora di inquadrare meglio la sua persona e opera nel contesto della Germania odierna e a venire.
Molte delle parole che disse tra quel lontano 1989, quando si esaurì il suo compito cristiano di mantenere il processo di decomposizione della Repubblica Democratica dentro i confini insuperabili della pace, e il 2014, anno della sua morte, devono essere ora raccolte per delineare l’immaginario futuro della Repubblica Federale Tedesca. Tentarne una sintesi è impresa che non renderebbe onore alla misura della persona. Eppure se ne può trovare come una costante: quella che fa della Germania un paese chiamato al dovere della memoria - esattamente nella stagione della sua forza sullo scenario europeo. Nell’oggi, forza economica e commerciale, forza politica e finanziaria, forza di rappresentanza e di induzione delle decisioni sul piano continentale. Se la Germania dimentica, ed essa sembra essere sempre di nuovo ammaliata da questa tentazione, rischia di trasformare il suo prestigio e la sua autorevolezza in un principio ciecamente monopolizzatore. Se la Germania sa fare memoria, essa si ritrova immediatamente a due passi dalla condizione che travaglia ogni paese europeo nell’ora presente. L’azzardo, dunque, di far funzionare un ethos nazionale della memoria come antidoto contro ogni orgogliosa stoltezza di carattere più o meno nazionalista.
Il dovere della memoria si presenta, quindi, come un compito politico per la Germania di oggi; un compito che non si esaurisce nella soddisfazione dei propri confini, ma guarda verso una realtà che li travalica – appunto, quella di portare a termine il processo europeo in tutti i suoi elementi cardine. Nella tarda modernità la Germania ha sempre tentennato davanti alla realizzazione compiuta di questo dovere civile, trascinando con sé nel baratro l’Europa stessa e i frutti migliori del moderno – fino a renderli praticamente inutilizzabili. Si vedrà in tempi brevi se essa si limiterà a celebrare retoricamente la figura di Christian Führer, o se saprà raccoglierne il monito urgente: quello che solo una memoria integra e rigorosa può fare della Germania un paese davvero europeo, come tutti gli altri, a favore dell’Europa a venire.
Riproduzione riservata