«Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso è punito [con la morte, e oggi] con l’ergastolo» (art. 285 c. p.). «Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’art. 285, commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da otto a quindici anni» (art. 419 c. p.).
Queste le disposizioni del Codice Rocco applicate dalla Cassazione a dieci manifestanti contro il G8 del 2001. Non occorre aspettare le motivazioni della sentenza per rendersi conto dell’enormità delle condanne che la scelta di questa figura di reato, invece che di altre, ha fatalmente comportato. Non occorre neppure essere giuristi per avvertire la sproporzione fra le pene applicate ai manifestanti e quelle irrogate, o risparmiate per prescrizione, solo pochi giorni prima, ai poliziotti della Diaz: basta considerare che i poliziotti hanno picchiato persone e i manifestanti danneggiato cose. Eppure, era tutto ampiamente prevedibile, per almeno tre buoni motivi (proprio non mi sento di chiamarle buone ragioni).
Il primo motivo è una sorta di principio di economia della repressione penale. Dove la repressione, per non parlare della prevenzione, è del tutto inefficiente, poiché di fatto le sfuggono centinaia o migliaia di possibili colpevoli, allora quei pochi che vengono colti con le mani nel sacco pagano anche per tutti gli altri. È il ben noto meccanismo del capro espiatorio, che rendeva una lotteria la repressione penale nelle società primitive, e che ha reso aleatoria – per taluni “esemplare” – anche questa decisione. Qualcuno dirà: ma il nostro dovrebbe essere uno Stato di diritto. Certo, dovrebbe.
Il secondo motivo, ancora più paradossale, è proprio la condanna dei poliziotti della Diaz: più esattamente, la condanna dei vertici e la prescrizione degli esecutori dell’insensata mattanza nella scuola genovese. Ve la immaginate la canea che si sarebbe levata se i dieci manifestanti fossero stati condannati a pene più eque, il che per molti di loro, proprio come per la quasi totalità dei poliziotti, avrebbe significato non fare neppure un giorno di galera? Fossi stato uno degli avvocati difensori, avrei preavvisato il mio cliente di aspettarsi il peggio.
Il terzo motivo parrà risibile, ma è l’unico che abbia davvero a che fare con il diritto. Il fatto è che i giudici erano dinanzi a un’alternativa molto secca: potevano applicare al caso o gli articoli su devastazione e saccheggio, talvolta già usati con gli ultrà del calcio, e finire per irrogare pene spropositate, oppure l’articolo sul danneggiamento (art. 635), e condannare al massimo a un anno, compensato dall’indulto, il che sarebbe equivalso a un’assoluzione. Se questa era l’alternativa, allora si capisce come la scelta abbia potuto cadere proprio sul reato di devastazione e saccheggio.
A questo punto qualcuno dei trentamila firmatari dell’appello di 10x100, che personalmente non ho firmato, obbietterà che i dieci avrebbero dovuto essere assolti: ma lì, da giurista e da genovese, non riesco proprio a seguirli. Moralmente, fondare una banca può essere peggio che distruggere un bancomat, ma giuridicamente non si poteva chiudere un occhio dinanzi ai vandalismi: allora, tanto valeva assolvere anche i vertici della polizia. Certo, se mai si fosse potuto giudicare secondo equità, tenendo conto di tutte le circostanze del caso, penso che le pene avrebbero potuto, e forse dovuto, essere raddoppiate per i poliziotti e dimezzate per i manifestanti: ma i giudici penali non giudicano secondo equità, il loro mestiere è applicare la legge.
Così, dieci persone non più colpevoli di centinaia di altri manifestanti finiranno in galera per colpe di cui si sono macchiate quando avevano vent’anni: e neanche loro – come il Paul Nizan del tema della maturità – ricorderanno con nostalgia la loro giovinezza. Fra questi, anche il manifestante, pluri-intervistato in questi giorni, che pochi mesi dopo i fatti di Genova ha vestito la divisa dell’esercito italiano in Bosnia, guadagnandosi un encomio solenne: uno dei cinque aggrappati alla prospettiva del rinvio in appello, per l’applicazione dell’attenuante della «suggestione di una folla in tumulto» (62 c. p). Per dire quanto possa essere sottile la linea che separa la legalità dall’illegalità.
Ma Genova non finisce qua: Genova non finisce mai. Le due sentenze qui commentate sono definitive: e non farei gran conto su ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Però c’è ancora la sentenza su Bolzaneto: sperando che almeno questa faccia semplicemente giustizia, senza altre compensazioni. Poi c’è da rimettere mano al codice penale: rivedendo il delitto di devastazione e saccheggio e recependo quel reato di tortura che proprio Bolzaneto sembra aver sinora impedito di recepire. Infine, c’è da fare, tutti, un bel corso accelerato di garantismo, sennò, con i tempi che corrono, ci ritroveremo presto a commentare altre sentenze come queste.
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