Forse è vero quello che ci dice la fisica, il tempo può scorrere anche all’indietro. La cosa diviene immediatamente percepibile al turista che passeggia attraverso Genova in questi giorni in cui si celebra in varia e spesso strampalata maniera il ventennale del G8, e che si imbatte ancora oggi con stupore nel corso della sua flânerie in tutta una serie di cancellate e di recinzioni. Sul senso politico più generale che a mio avviso le giornate del G8 ebbero ho già scritto sulle pagine di «Terzogiornale». Qui mi concentrerò invece sui segni permanenti che il G8 ha lasciato sul terreno della città, ancora tutti visibili.

Il G8 genovese non è solo il momento in cui viene sperimentata in un Paese «occidentale» una violenza pressoché senza precedenti contro i manifestanti (si potrebbe forse azzardare un parallelo con la repressione della manifestazione degli algerini a Parigi nel 1961, ma si potrebbe parlare anche di Londonderry 1972, del Bloody Sunday), ma ha rappresentato anche e soprattutto un modello complesso di gestione di una protesta di massa messo in atto in una città, una sorta di «controrivoluzione urbana preventiva». Quello che si è sperimentato è un sistema di controllo e di sorveglianza certo meno raffinato e più brutale di quelli sofisticati, impalpabili e tecnologici a lungo di moda nella trattazione sociologica e filosofica, ma tuttavia dotato di una sua schiacciante efficacia. Si è assistito alla divisione, separazione, frammentazione di una città, fino a renderla pressoché impraticabile per i suoi stessi abitanti. La separazione in zona rossa e zona gialla non serviva a proteggere determinate aree, ma a bloccare pressoché completamente la vita urbana. A Genova si è celebrata la negazione della città come concatenazione di luoghi, come sistema di contiguità, di successione di spazi. Sono stati resi obbligatori nuovi percorsi, stabilendo no-go areas, e imponendo così prospettive impreviste e anomale e una generale riorganizzazione della spazialità.

A Genova si è celebrata la negazione della città come concatenazione di luoghi, come sistema di contiguità, di successione di spazi. Sono stati resi obbligatori nuovi percorsi, imponendo così prospettive impreviste e una generale riorganizzazione della spazialità

L’assedio e la blindatura della città sono stati preparati con attenzione minuziosa ai dettagli. Fino all’ultimo è stato difficile credere che sarebbe stato possibile isolare completamente un’area urbana così vasta in zone ermeticamente chiuse, tra di loro non comunicanti, imporle una maglia completamente rigida.

Questo sia per alcune caratteristiche geografiche peculiari della città, tradizionalmente «stretta», tutta sviluppata in lunghezza, in cui intervenire sulla viabilità è estremamente complesso, sia per alcune sue particolarità architettonico-urbanistiche, la struttura policentrica, la compattezza e l’estensione del centro antico, la sua rete viaria tortuosa. Sotto questo profilo la scelta di Palazzo Ducale, in pieno centro storico, quale sede del G8 pareva una follia. Meglio si sarebbero prestate altri complessi edilizi, situati in località più facilmente difendibili e sorvegliabili, se l’obiettivo fosse realmente stato quello di garantire una sicurezza completa al vertice. Per salvaguardare la centralità simbolica di Palazzo Ducale occorreva conciliare la trasformazione di diversi chilometri quadrati del centro in una successione di sbarre e inferriate, trasformare il cuore di una città in una sorta di superpenitenziario all’aperto. Per giorni si dormì male mentre risuonavano ovunque i colpi di martello degli operai che collocavano barriere e griglie a centinaia. Una lunghissima distesa di cancelli che, come intuii e facilmente profetizzai all’epoca, erano in buona parte venuti per restare. Tra l’altro la ciliegina del G8, con tutto il suo pesantissimo portato sicuritario e militar-poliziesco cadeva a fagiolo su di una situazione socio-spaziale già per molti versi compromessa. La città vecchia infatti aveva già sul finire degli anni Ottanta e per tutto il decennio successivo sperimentato una stagione di parziali e autoprodotte «recinzioni». Era l’epoca in cui il commercio dell’eroina aveva trasformato il centro storico in una sorta di supermercato della droga all’aperto. Don Andrea Gallo parlava all’epoca di «città drogata». Qualcuno però, in attesa dell’ambizioso «diradamento» del centro antico, della distruzione di un edificio su quattro, vagheggiata da alcune forze politiche al tempo maggioritarie, con finalità al contempo speculative e di controllo sociale, aveva già pensato di cogliere l’occasione offerta dallo spaccio di stupefacenti per chiudere vicoli e passaggi, per recintare e privatizzare piazzette dimenticate. I cancelli del G8 si sposarono quindi splendidamente con processi già in corso. Il fenomeno delle enclosures si è poi andato accentuando negli ultimi anni per ragioni e con motivazioni che prescindono in parte dalle considerazioni cui si accennava prima, e che vanno al di là dello stesso modello della città punitiva, se intesa unicamente come dispositivo sociale attivo che produce esclusione. La recente proliferazione delle cancellate nel centro storico segue infatti linee capricciose, pare legata non solo a dispositivi sicuritari, ma anche a processi non lineari di privatizzazione dello spazio pubblico, a una gentrification incompiuta e pasticciona, a piccoli interessi commerciali. Dehors protetti da griglie metalliche che privatizzano (ma solo per qualche ora al giorno) piazze millenarie, vicoli appropriati e riutilizzati come depositi dai proprietari degli edifici adiacenti. L’elenco sarebbe lungo.È il trionfo di una «cultura della recinzione» di una concezione privatistica della città che forse ha origini antiche, ed era certo già radicata prima del G8 stesso. Ma il G8 è stato decisivo, in quanto ha svolto un’opera di giustificazione ex post, di accelerazione di tendenze e di trasformazioni già in buona parte in corso, mostrando che «era possibile» chiudere percorsi, appropriare privatamente spazi pubblici, e che lo si poteva fare tranquillamente senza dover temere grandi conseguenze. È proprio a partire dal G8 che questa tendenza è diventata operativa ed è stata sistematicamente messa in pratica. Si contano oggi quasi una cinquantina di vicoli e piazze che sono state bloccate e chiuse da cancelli, e, a ulteriore conferma di quanto si diceva, alcuni di questi cancelli sono eredità diretta del G8, non sono stati mai rimossi. La fisionomia della città antica ne è risultata completamente alterata: le recinzioni e le griglie sottraggono al centro storico una parte del suo fascino, ne addomesticano la varietà. Si moltiplicano i «sentieri interrotti», i frammenti di direzionalità perdute che non trovano più una loro continuità. Spuntano barriere che impediscono di vedere e di percorrere la città antica come meriterebbe di essere percorsa e vista, e che forse preludono a una sua successiva sterilizzazione e museificazione. La tarda e travagliata trasformazione della città in senso turistico auspicata dall’amministrazione attuale passa anche attraverso questo processo, mentre l’erosione dello spazio pubblico procede incessante nel dilagare post-pandemico dei tavolini all’aperto che divorano e restringono fino all’eccesso i già limitati spazi dei vicoli. È il trionfo di una "cultura della recinzione" di una concezione privatistica della città che era già radicata prima del G8, ma il G8 è stato decisivo: ha svolto un’opera di giustificazione ex post, di accelerazione di tendenze e di trasformazioni mostrando come fosse possibile appropriare privatamente spazi pubblici

Si parlò tanto nei mesi successivi al G8, non senza retorica di una «città ferita», alludendo agli eventi come a un trauma collettivo, variamente   piagnucolando sulle distruzioni, peraltro tutto sommato limitate, ma in realtà le ferite più gravi al centro storico dovevano ancora venire inferte. Così oggi la città celebra inconsapevolmente il suo ritorno al passato, pur nel suo proporsi sotto spoglie ormai difficilmente divisabili.