Il 2018 poteva essere l'anno della fine. Invece per la Gazzotti, azienda bolognese specializzata nella produzione e vendita di parquet di qualità, è stato l'anno della rinascita. Grazie a un'operazione di workers buyout i lavoratori sono riusciti a evitare le nefaste conseguenze di un fallimento che avrebbe portato alla chiusura dell’attività e al licenziamento di tutti i dipendenti. Come hanno fatto? Si sono costituiti in cooperativa, hanno comprato la loro azienda sfruttando gli strumenti legislativi esistenti, e ora la Gazzotti la gestiscono direttamente loro, da socie e soci della cooperativa.
«Siamo semplicemente lavoratori e lavoratrici che si sono messi il cappello degli imprenditori», ama dire Andrea Signoretti, il presidente della cooperativa «Gazzotti 18», dove il «18» segna l’anno della rinascita, e anche il numero di coloro che hanno deciso di tuffarsi in un’impresa che sembrava impossibile. Le cose sono andate diversamente, e a tre anni di distanza l’azienda continua a stare sul mercato, esportando anche nel lontano Oriente. Ultimo successo la commessa che sta vedendo l’azienda bolognese impegnata nella produzione di parquet per i nuovi appartamenti in costruzione a Seul, in Corea del Sud. «Siamo un marchio internazionale e il nostro parquet made in Italy conosciuto è ovunque», ha orgogliosamente raccontato la vicepresidente della coop Alessandra Boschi a www.change-makers.cloud, il magazine digitale che ha raccontato l’azienda e i primi tre anni del workers buyout. La storia inizia nel 1910, quando il bolognese Leonello Gazzotti dà vita a un'azienda che si fa strada velocemente, tanto da diventare il fornitore ufficiale di Casa Savoia. Passa il tempo, la produzione si sposta fuori città, a Castel Maggiore, e il numero degli operai tocca quota 120. Nel 2008 la crisi economica colpisce durissimo, e l’onda si abbatte anche lì, in una azienda che viveva di grandi commesse legate al mondo delle costruzioni. Inizia così un declino inarrestabile e si arriva al 2018: di fronte al fallimento i lavoratori contattano Legacoop Bologna e provano la via del workers buyout. È la mossa giusta. Viene studiato un business plan, c’è un confronto costante col curatore fallimentare, i lavoratori finanziano l’operazione con la loro Naspi, l’indennità di disoccupazione, riscattandola dall’Inps e chiedendone l’anticipo a Banca Etica. La neo costituita cooperativa prima avanza alla curatela fallimentare del Tribunale di Bologna una manifestazione di interesse per acquistare marchio, magazzino e macchinari; poi partecipa all’asta vera e propria indetta del Tribunale e la vince. Ora, come Gazzotti 18, l’attività può riprendere. Oltre ai soldi racimolati impegnando la Naspi la cooperativa può contare sui fondi messi a disposizione da Cfi, la società partecipata dal ministero dello Sviluppo economico che promuove e finanzia la nascita di imprese cooperative; e da Coopfond, il fondo mutualistico di Legacoop.
Inizia un declino inarrestabile e si arriva al 2018: di fronte al fallimento i lavoratori della Gazzotti contattano Legacoop Bologna e provano la via del workers buyout
Giovanni Alberoni in Gazzotti ci è entrato da ragazzino a 15 anni. Oggi di anni ne ha 51 ed è diventato una delle colonne dell’azienda. 35 anni di lavoro e solide competenze tecniche, Alberoni si occupa della verniciatura. «Questa azienda è stata per me una famiglia – ha spiegato – Prima andavamo a casa senza pensieri perché ci pensava il titolare, adesso ci pensiamo noi. Cerchiamo le soluzioni ai problemi, organizziamo il nostro lavoro, la nostra professionalità è coinvolta al massimo». Le socie e i soci della Gazzotti hanno giocoforza dovuto acquisire nuove conoscenze, e allargare i loro punti di vista. Anche acquisendo competenze amministrative e di governance aziendale. «Facciamo quel che serve e dove serve», ha spiegato Enrica Vigolo, che in azienda si occupa del magazzino e della campionatura. «La Gazzotti non è un’impresa classica, siamo noi a decidere, abbiamo il controllo di tutta la catena produttiva».
Siamo di fronte a una storia di successo, quasi un case study. I problemi sono stati però tanti, a dimostrazione che la via che porta a un workers buyout di successo raramente è semplice e lineare. Con i capitali racimolati grazie a Naspi, Coopfond e Cfi, i lavoratori sono riusciti a «comprare» (in realtà la modalità è quella del rent to buy) il ramo d’azienda con macchinari, marchio e magazzino. A caro prezzo però. Per far quadrare i conti hanno dovuto decurtarsi lo stipendio. Altro tema delicato: a decidere di procedere con il workers buyout sono stati 18 lavoratori, altri 20 hanno legittimamente preferito restare in cassa integrazione. Per rilevare la loro vecchia azienda i 18 hanno dunque dovuto licenziarsi, rischiando il tutto per tutto. E quando hanno rilevato il ramo d’azienda hanno anche «ereditato» i contratti dei loro colleghi. Una ventina di persone che in questi tre anni è rimasta in cassa integrazione, e dopo essere stata accompagnata fino ad oggi con ammortizzatori sociali, si prepara a uscire dalla Gazzotti con incentivi all’esodo. La nuova cooperativa si è dovuta dunque fare carico degli oneri di tutto il personale.
I problemi sono stati però tanti, a dimostrazione che la via che porta a un workers buyout di successo raramente è semplice e lineare
«Fuori dal percorso che ha portato alla nascita della coop ci sarebbero stati 38 disoccupati», spiega Luca Grosso di Legacoop Bologna. Grosso si è occupato in prima persona di creare un business plan assieme ai 18 soci della Gazzotti e ha lavorato con loro per rilanciare l’impresa. «Grazie all’impegno dei soci c’è stata la possibilità di dare continuità al progetto imprenditoriale ma nello stesso tempo di accompagnare i lavoratori non coinvolti dal progetto cooperativo. Tutto questo però ha avuto un forte impatto economico e finanziario. Senza questi oneri avremmo una cooperativa molto più solida. Ai tecnici di Legacoop, impegnati nel promuovere lo strumento del workers buyout, il caso ha mostrato invece le complessità legate a percorsi di questo tipo. C’è stata da subito la necessità di definire un nuovo perimetro aziendale cooperativo, e di tutelare il più possibile il rischio di chi ha finanziato il workers buyout con la propria Naspi, visto che l’ammortizzatore sociale inizia a ricaricarsi dopo due anni di piena occupazione e si rigenera appieno solo dopo 48 mesi».
A pesare positivamente sono state le relazioni tra azienda e sindacali. «Gli operai Gazzotti hanno anche la tessera sindacale in tasca. La loro è una storia che ci è rimasta nel cuore», racconta Paolo Mancini, segretario della Fillea-Cgil di Bologna. Mancini parla di un’azienda coraggiosa che «continua a combattere nonostante tutto quel che è successo» e definisce «scelta lungimirante» la lunga cassa integrazione di tre anni che sta portando all’esodo volontario di chi non è entrato nella cooperativa.
Non è comunque detto che un workers buyout funzioni come si deve, i casi di fallimento di operazioni simili esistono. Per questo i sindacati spesso sono diffidenti nei confronti dello strumento. «Il problema è che la soluzione del workers buyout tramite cooperativa viene esplorata solo come ultima risorsa, quando tutto il resto ormai non funziona più» – ragiona il segretario della Fiom di Bologna, Michele Bulgarelli. «Mettiamola così: le cooperative dovrebbero nascere forti, non dalle macerie di aziende fallite». Paolo Mancini della Fillea allarga lo sguardo: «Bisognerebbe intervenire sulla legge nazionale per fare in modo che un workers buyout sia appetibile anche prima di arrivare a un fallimento. Penso alle delocalizzazioni, oppure agli imprenditori che non hanno figli a cui lasciare l’attività. In tutti questi casi serve che lo Stato stanzi risorse adeguate». «I workers buyout sono risposte di qualità e di lavoro a chi vive di lavoro. Interventi che avrebbero bisogno di più forza dal punto di vista legislativo, ad esempio investimenti agevolati per la tecnologia e per recuperare gli immobili produttivi», dice invece l’assessore regionale al Lavoro dell’Emilia-Romagna, Vincenzo Colla.
Al momento le imprese rigenerate dai lavoratori sono un’esperienza di lungo periodo, oltre 35 anni, che nel tempo è rimasta confinata a pochi, seppur significativi casi di utilizzo in presenza di crisi aziendali. Un problema che i vertici del mondo cooperativo hanno ben presente. Rita Ghedini, presidente di Legacoop Bologna, elenca i cambiamenti che servirebbero per affermare i workers buyout: una «nuova cultura delle relazioni sindacali», misure incentivanti e «soprattutto un’interpretazione delle norme già esistenti che favorisca questi processi valorizzandoli per quel che sono: uno sforzo per salvaguardare l’interesse diffuso dei territori».
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