Sono ormai due mesi che i Palestinesi hanno cominciato la loro nuova forma di resistenza e protesta: dalla prima manifestazione, tenutasi lo scorso 30 marzo per celebrare (come ogni anno) il “giorno della terra”, gli abitanti di Gaza hanno continuato ad organizzare settimanalmente manifestazioni di massa a ridosso della barriera che separa la Striscia da Israele. Al di là della propaganda che ha cercato di dipingere queste manifestazioni come pericolosissimi atti terroristici riconducibili ad Hamas, si tratta di eventi messi insieme dalla gente comune di Gaza per protestare contro la punizione collettiva loro imposta – il blocco che li imprigiona e soffoca – contro il mancato accesso alla terra e per rivendicare i loro diritti negati.
Dopo un lungo periodo di disinteresse, ove altri tragici conflitti, come quello siriano, hanno assorbito tutta l’attenzione disponibile, nelle ultime settimane i riflettori si sono riaccesi su Gaza, l’attenzione sulla “questione palestinese” è tornata alta.
Gli eventi sono stati scanditi dalla ricorrenza settimanale delle manifestazioni del venerdì, in un crescendo di sconcerto e allarme dovuto alla violenza della repressione messa in atto dall’esercito israeliano e allo scioccante numero di morti e feriti tra i manifestanti: ad oggi fonti dell’Onu stimano intorno ai 128 morti e oltre 13.000 feriti. Solo nel corso della manifestazione del 14 maggio scorso, coincisa con l’anniversario della Nakba, ma anche con l’inaugurazione della nuova sede dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme decisa da Trump, 60 Palestinesi sono stati uccisi e quasi 3.000 feriti dai soldati dell’esercito israeliano.
Tuttavia, forse ancor più della conta dei morti, sono singoli episodi – come l’uccisione pochi giorni fa di Razan Al Najjar – a suscitare sdegno e reazioni forti. Razan era una coraggiosa giovane donna che lavorava come volontaria paramedica. È stata uccisa con un colpo alla schiena sparato dall’altra parte della barriera da un cecchino israeliano, mentre prestava soccorso ai feriti durante l’ultima manifestazione del 1 giugno. Le foto la mostrano pochi attimi prima mentre insieme ad altri soccorritori, chiaramente riconoscibili dai loro abiti, avanzano in direzione dei soldati israeliani con le mani alzate verso l’alto, intenzionati a raggiungere alcuni manifestanti feriti. Purtroppo non siamo davanti a un caso isolato: prima di lei, si stima che altri 14 soccorritori siano stati colpiti e uccisi, nonché una dozzina di giornalisti, tra cui Yasser Murtaja. Per non parlare dei bambini. Ma in realtà, al di là di queste vittime indiscusse, perché appartenenti alle categorie “protette” dal diritto internazionale umanitario, il ricorso alla forza armata (e nel caso di specie sovente letale) contro manifestanti che non pongono alcun concreto pericolo per i soldati, né tanto meno alcuna minaccia imminente per Israele, non è mai accettabile. Queste uccisioni e ferimenti di civili disarmati sono stati infatti duramente condannati dalla comunità internazionale in varie sedi (si veda tra gli altri Amnesty International) sebbene – ancora una volta – l’Onu sia bloccato nel prendere concrete azioni dal veto esercitato dagli Stati Uniti.
Queste uccisioni e ferimenti di civili disarmati sono stati infatti duramente condannati dalla comunità internazionale in varie sedi, sebbene – ancora una volta – l’Onu sia bloccato nel prendere concrete azioni dal veto esercitato dagli Stati Uniti
Quel che appare chiaro è che tali episodi, lungi dal rappresentare errori, corrispondono a precise politiche e determinazioni prese dai vertici dello Stato israeliano. Come il Ministro della Difesa Lieberman sostiene, infatti, la prospettiva del suo governo è che: “non esistono innocenti a Gaza”. Le azioni dei soldati, che hanno sparato a distanza a manifestanti disarmati, appaiono corrispondere alle istruzioni loro date dai vertici militari e politici israeliani. Il via libera ad un così ampio e illegittimo uso della forza letale è stato peraltro concesso già prima delle manifestazioni di fine marzo (si veda in tal senso il report di Human Rights Watch).
Da ultimo, il 24 maggio, è arrivata una decisione della Corte suprema israeliana a suggellare la totale legittimità, dal punto di vista interno, delle azioni dei soldati a Gaza. È proprio a causa di questo suggello di ufficialità, questo sforzo profuso a 360 gradi dai vertici israeliani, volto a giustificare e legittimare la propria condotta a Gaza, inclusa la concessione di amplissima licenza di uccidere ai soldati all’uopo schierati, che i comandanti israeliani potrebbero presto trovarsi a doversi difendere davanti agli organi della giustizia internazionale. Dopo i fatti delle ultime settimane pare infatti sempre più probabile e imminente l’apertura formale di un’indagine sulla situazione da parte della Procuratrice della Corte penale internazionale (Cpi).
È dall’inizio degli anni 2000, dopo il fallimento della seconda Intifada, che i Palestinesi hanno iniziato ad appellarsi agli organismi del diritto internazionale, tra cui quelli della giustizia penale, per invocare protezione e rivendicare i propri diritti. Dopo l’intervento della Corte internazionale di giustizia, che nel 2004 sancì la contrarietà al diritto internazionale del muro di separazione e del regime ad esso associato in Cisgiordania e Gerusalemme, sono ormai quasi dieci anni che l’Autorità Palestinese, da un lato, attraverso i suoi ministri di Ramallah, e la società civile palestinese, dall’altro, mediante le principali organizzazioni indipendenti per diritti umani, come Al Haq, il Palestinian Centre for Human Rights, Al Mezan e altre, stanno chiedendo alla Cpi di intervenire, presentando dettagliate denunce corredate da migliaia di pagine di prove della commissione di crimini internazionali nei confronti del popolo palestinese.
È dall’inizio degli anni 2000 che i Palestinesi hanno iniziato ad appellarsi agli organismi del diritto internazionale, tra cui quelli della giustizia penale, per invocare protezione e rivendicare i propri diritti
La Cpi, dal canto suo, ha evitato finora di occuparsi della questione, in un primo tempo schermandosi dietro all’incerto status della Palestina a livello internazionale (obiezione poi superata dalla Corte stessa a seguito della Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu del 29.11.2012 che ha elevato la Palestina a “Stato osservatore non membro”) e rifiutandosi poi di indagare sui presunti crimini di guerra e contro l’umanità commessi sulla nave Mavi Marmara, ove 10 passeggeri di nazionalità turca furono uccisi dall’esercito israeliano esattamente 8 anni fa, durante le operazioni di intercettazione in mare aperto della flottiglia diretta a Gaza che voleva forzare il blocco navale per portare soccorso umanitario ai residenti della Striscia. In quell’occasione la Procuratrice della Corte scrisse che, sebbene vi fossero gli elementi per ritenere integrati crimini di competenza della Corte, questi non sarebbero stati sufficientemente gravi (dato il relativamente esiguo numero di morti e feriti) per giustificare l’apertura di una indagine. La decisione fu aspramente criticata, anche da parte degli stessi giudici della Camera preliminare, che, su ricorso degli interessati, chiesero alla Procuratrice di riconsiderare la decisione; ma all’esito della seconda analisi il risultato, reso pubblico lo scorso novembre, non è cambiato.
Significativamente, tuttavia, a seguito della ratifica del trattato istitutivo della Cpi (lo Statuto di Roma) da parte della Palestina nel gennaio 2015, la Corte ha avviato un c.d. esame preliminare sulla situazione. Sebbene Israele non sia uno Stato-parte, la competenza territoriale della Corte è fondata grazie all’adesione della Palestina al trattato ed include potenzialmente tutti i crimini (di rilevanza internazionale) commessi da parte tanto israeliana quanto palestinese in territorio palestinese a far data dal 14 giugno 2014 (ossia da quando il governo di Ramallah ha “accettato” la giurisdizione della Corte).
Fonti interne bene informate ritengono che, dopo i fatti di Gaza delle ultime settimane, l’apertura dell’indagine da parte della Procuratrice non potrà farsi attendere ancora molto. I profili problematici sono indubbiamente molteplici e seri, specie in mancanza della collaborazione di Israele e dell’opposizione di paesi come gli Stati Uniti, ma è evidente che per la Corte sia divenuto sempre più difficile giustificare il proprio non intervento. Ne è un segnale il recente comunicato nel quale si legge che la Procuratrice sta “osservando con grave preoccupazione la violenza e il deteriorarsi della situazione nella Striscia di Gaza nel contesto delle recenti manifestazioni di massa […]”, che la violenza contro i civili, in una situazione come quella di Gaza, può integrare crimini ai sensi dello Statuto di Roma e che la Corte “continuerà ad osservare da vicino”.
Per accelerare le procedure, intanto, il governo di Ramallah la scorsa settimana ha formalmente presentato un referral ai sensi dell’art. 14 dello Statuto, una sorta di deferimento della situazione, che rappresenta uno tre meccanismi di attivazione di un’indagine e che (come i referral del Consiglio di Sicurezza dell’Onu) ha come conseguenza che l’Ufficio del Procuratore possa (ma non debba) dare avvio all’indagine senza dover essere previamente autorizzato dai giudici della Camera preliminare (passaggio, quest’ultimo, invece necessario in caso di indagini motu proprio).
In mancanza di interlocutori validi e di significative prese di posizione dall’esterno, le speranze di una composizione politica della situazione sono sempre più inconsistenti. Israele è più forte che mai. I Palestinesi più deboli che mai. In queste condizioni, in cui nessun processo di pace è davvero possibile, il ruolo della giustizia internazionale appare cruciale per riaffermare la validità della rule of law a fronte del dispiego della forza militare, in ossequio a quei principi fondamentali che, esattamente settant’anni fa, in coincidenza con la nascita dello Stato di Israele, abbiamo definito universali.
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