Servono saperi appropriati e rigorosi per contrastare discorsi pubblici e politici che, rafforzati da una potente eco mediatica, reggono la convinzione di una frontiera europea in pericolo e da proteggere dentro e fuori i suoi confini, e per mostrarne il loro carattere costruito, fatto d’allarmi sociali spesso mistificanti la scena reale delle cose. Era dunque necessario il libro di Giuseppe Campesi, Polizia della frontiera. Frontex e la produzione dello spazio europeo (Derive e Approdi, 2015) che con competenza e minuzia ricostruisce non solo la nascita di Frontex, ma le radici in cui affonda lo schema politico dell’attuale Unione europea. È stata centrale sin dalla sua nascita, infatti, l’idea politica che uno spazio aperto al suo interno richiedesse misure che a più livelli selezionassero – prima e dopo i suoi confini territoriali, e in modi sempre più raffinati – la mobilità umana che ne avrebbe fatto ingresso. 

Un quadro analitico pensato su concetti delle scienze sociali, giuridiche e di filosofia politica attraversa pagine dirette a un pubblico specialistico. Esse sono altresì rivolte a chi intenda studiare e comprendere con serietà scientifica l’Europa contemporanea e le sue politiche di controllo, e i modi con cui l’esternalizzazione della frontiera, la gestione della permanenza dei rifugiati e della loro circolazione sul territorio europeo sono sempre più sovrapposte fra loro. Almeno tre punti destano attenzione. Il primo è l’utilità della genealogia. Queste pagine ricostruiscono lo spazio europeo della sicurezza puntando dritto, storicizzandolo, allo scenario attuale.

Occorre andare indietro – sino all’Accordo Schengen del 1984, al Trattato di Maastricht e poi di Amsterdam – per comprendere quanto siano radicate e profonde le radici del processo che oggi prende il nome di controllo della frontiera europea. Gran parte delle pratiche politiche e delle vicende cui stiamo assistendo – in particolare dal 2013 – appaiono risposte conseguenti, naturali e legittime alla «crisi dei rifugiati». L’inasprimento delle politiche di confinamento, per esempio, lascia credere che la chiusura nei campi – spesso in condizioni di disagio sociale e materiale estremo – sia la risposta giusta e coerente alla presenza di profughi, o che il ruolo sempre più centrale di Frontex nelle zone d’approdo sia parte del percorso d’asilo. E ancora, che le recenti aree hotspot insieme al controllo selettivo sempre più dislocato sul territorio siano dovute ai numeri fuori controllo.

Fu così anche per Triton – la risposta europea agli arrivi via mare – che con la restrizione del suo spazio d’azione ha indubbiamente leso il diritto alla vita, ancor prima del diritto all’asilo. La genealogia del progetto spazio europeo guarda indietro, ma interroga presente e futuro. Disabitua lo sguardo dalla convinzione che le misure prese dinanzi alle mobilità umane siano necessità dovute all’urgenza, o alla crisi provocata dai rifugiati, o ancora sorte da basi improvvisate ed estemporanee. E soprattutto, riporta eventi e risposte politiche dentro a una linea storica e in uno scenario dalle radici remote, fatto di scelte istituzionali condivise sul piano internazionale.

Il secondo è l’asse dello sguardo. Queste pagine guardano all’Europa dal punto di vista delle politiche di controllo delle frontiere europee e volte a governare i rifugiati, il loro ingresso e la loro permanenza. Non è dunque una discussione solo su Frontex, istituzione che non si limita a proteggere i confini. Piuttosto, espressione inquietante seppur vera, come «laboratorio avanzato del nuovo regime di gestione della mobilità», Frontex porta con sé in modo esplicito «un’idea politica di Europa», e «la nascita del primo embrione di polizia della frontiera può essere considerata un capitolo fondamentale della costituzione materiale d’Europa».

Funzioni e presupposti della polizia di frontiera sono dunque strumento per far luce su uno scenario istituzionale più ampio che trova origine dalla fine degli anni Ottanta. Gli stessi presupposti di Schengen, scrive l’autore, hanno rappresentato un «momento rivoluzionario nella storia dei confini geopolitici europei» intervenendo direttamente «sulle modalità di controllo e gestione dei confini esterni al fine di definire e proteggere ciò che al suo interno avviene e circola». Occorre chiedersi: verso quale idea di Europa stiamo procedendo? La recente nascita dell’European Agenda on Migration rende ulteriormente esplicito il progetto politico che l’Ue sta costruendo non solo verso i rifugiati, ma verso se stessa.

E infine, qual è realmente la funzione di Frontex e cosa smaschera delle politiche rivolte a chi entra e permane nello spazio europeo senza possederne criteri d’appartenenza? La storia di Frontex inizia prima della sua nascita, e un percorso di rafforzamento successivo ne ha «progressivamente incrementato l’autonomia operativa». L’idea che limita Frontex all’essere «un’agenzia diretta a coordinare e a migliorare il controllo delle frontiere esterne all’Ue» è infranta dalla descrizione del suo mandato ben più ampio e radicale, operativo e concreto, e soprattutto ambizioso nell’essere simbolo di una «governance a gestione diffusa» e luogo di produzione di saperi. È chiaro che la posta in gioco non è la separazione fra spazio interno ed esterno all’Europa: il filtro all’ingresso dello spazio europeo è solo un punto dell’esercizio lungo del confine, geograficamente distribuito e temporalmente dilatato.

Non è la netta chiusura il compito del confine europeo, tantomeno quello di Frontex. È piuttosto una feroce «porta girevole» che esclude anche chi lascia fisicamente entrare, dove espulsione ed esclusione dai diritti o dalla polis sono circostanze reali e possibili vissute anche dopo l’ingresso sul territorio europeo. Lontani dall’essere linea ordinata di separazione, i confini assumono i tratti di una politica selettiva distribuita sul territorio che, con criteri di volta in volta ridefiniti, svolgono «una funzione di gerarchizzazione» stabilendo «differenti regimi di mobilità». Geograficamente distribuito dunque, e insieme dilatato nel tempo, l’esercizio del confine inizia prima della frontiera europea e in seguito continua, nelle diverse «zone di extraterritorialità» dove lo straniero è fisicamente presente sul territorio, ma posto fuori dallo spazio del diritto.

Un senso concreto e tangibile delle operazioni di controllo emerge nella descrizione di chi sono e di come operano gli agenti della polizia della frontiera. Frontex smette così di essere entità astratta, che agisce sopra l’Europa e lontano dai corpi dei rifugiati. Spetta a chi porta avanti ricerche di campo esplorare come il regime securitario si declini nelle relazioni concrete fra le polizie della frontiera e rifugiati, registrando le conseguenze reali e dirette su chi penetra lo spazio europeo senza corrispondere ai giusti criteri delle gerarchie d’accesso e d’inclusione. Servono, infine, saperi rigorosi che interroghino realmente la linea politica d’Europa e le vicissitudini dei rifugiati per controbilanciare una delle attività più pervasive, e forse pericolose, della polizia della frontiera, che consiste nel produrre, divulgare e promuovere saperi e conoscenze non solo sui confini o sulle frontiere d’Europa, ma sui rifugiati, su coloro, cioè, che paiono mettere – agli occhi dell’Europa – “Schengen sotto pressione”.