«Tutto ciò che succede nel mondo mi riguarda». Una frase presuntuosa e folle, che solo chi è davvero avido di conoscere può azzardarsi a scrivere. Ma che quasi nessuno può provare a mettere in pratica. Tra le doti necessarie per farlo, naturalmente, la curiosità. Ma anche una particolare disposizione d’animo che ti porta ad aprirti all’altro e a non credere mai di avere del tutto imparato, nemmeno quando arrivi a superare i novant’anni e per tutta la vita il mondo l’hai girato e mirato in lungo e in largo, tanto che alla fine ti chiameranno «il miramondo». Altri probabilmente non si sarebbero mai mossi da Firenze. Se cresci in un posto come Poggio Imperiale, figlio di genitori colti e aperti al mondo, chi te lo fa fare di muoverti? Forse se sei un borghese qualunque, che si accontenta di quel che la sorte gli ha messo in mano sin da subito; ma se hai la fortuna di vedere girare per casa Aldous Huxley, Eugenio Montale, Ugo Ojetti, Giò Ponti hai molte probabilità in più che fin da piccolo ti venga l’urgenza di capire qualcosa di tutto ciò che è là fuori – anche dei mondi più lontani dal tuo – e di andare in giro a scoprirlo, un pezzo alla volta, soprattutto se si tratta di luoghi lontani dalla tua cultura e dai tuoi usi, non importa quanto difficile sia la lingua e quanto disagiato sia il vivere.
È il 1920, Fosco Maraini ha otto anni ed è in vacanza con i nonni a Vallombrosa per sfuggire al caldo, e per la prima volta scopre le Apuane. Non dovrà passare tanto tempo perché, con la scusa di visitare degli amici in Versilia, se ne vada di nascosto con l’amico Bernardo a salirli, quei monti. Le prime ascensioni le compie a quattordici, quindici anni e da allora la passione per la montagna non lo lascerà più, portandolo alle grandi spedizioni sul Karakorun e nelle montagne nell’Hindu Kush. Il rapporto con la montagna e i grandi alpinisti segnerà gran parte della sua esistenza, sin dalla frequentazione delle Dolomiti con la moglie Topazia, scalatrice anche lei, in anni in cui era raro vedere donne in montagna a quei livelli – e vederle faceva grande scandalo – e ancor prima dell’Appennino (nel 1934 pubblica una Guida dell’Abetone per lo sciatore). Proprio sulle Dolomiti conosce Tita Piaz, con cui scala la più difficile delle Torri del Vajolet, la Winkler, e, a soli vent’anni, arrampica con Emilio Comici, insieme al quale fa vie importanti come la Dülfer alla Cima Ovest di Lavaredo. Nel 1958 arriva la spedizione epica del Cai che porta alla conquista del Gashembrum IV, un «quasi ottomila» (7.925 metri), la cui vetta viene toccata per la prima volta da Bonatti e Mauri. Maraini fa parte di quella spedizione, guidata da Cassin. Molti anni prima della grande avventura del Gashembrum IV che l’anno dopo diede origine a uno dei suoi tanti libri: Gashembrum IV, la splendida cima (poi rieditato da Vivalda nel 1997, con un poscritto dell’autore). Maraini è con la spedizione italiana in veste di cineoperatore e fotografo, ma anche perché la sua conoscenza della lingua e della cultura dei luoghi gli permette di tenere un rapporto diretto con i portatori, di cui nei suoi scritti citerà i nomi e le capacità.
La scrittura lo accompagnerà sempre. Il suo primo articolo è per l’«Avvenire» di Firenze, quando ha diciassette anni. Successivamente mantiene l’abitudine di scrivere con frequenza: dalla seconda metà degli anni Trenta i suoi resoconti usciranno con regolarità sulla rivista del Cai, ma spesso pure sulle pagine del «Corriere della Sera», oltre che su giornali come il «Quotidiano di Sicilia» e su riviste come «L’Illustrazione italiana» e «Domus». Appena un anno dopo la spedizione con Cassin, è in Hindu Kush per tentare il Picco Saraghrar, ai confini tra Pakistan e Afghanistan: è il 1958, questa volta il gruppo non è di professionisti della montagna ma di semplici, si fa per dire, appassionati. Ne uscirà anche in questo caso un libro (Paropàmiso, De Donato, 1963), più romanzo di formazione che resoconto di viaggio.
Il suo esordio da viaggiatore esotico è stato dallo stesso protagonista raccontato più volte. È a Misurina a sciare, e nel togliere gli scarponi dalla carta di giornale in cui li aveva avvolti nota un annuncio. Giuseppe Tucci, il grande orientalista fondatore con Giovanni Gentile dell’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente di Roma, cerca un assistente. Chi lo aveva accompagnato in precedenza questa volta non può farlo. Maraini – che è già sposato con Topazia (il loro rapporto emerge, tra l’altro, nel volume illustrato e corredato dei diari originali Love holidays. Quaderni d’amore e di viaggi, Rizzoli, 2014) – gli scrive, precisando tra l’altro di sapersela cavare bene con la fotografia. È il 1937, dopo un primo colloquio a Roma viene assunto e parte per il suo primo viaggio in Tibet, aggregato alla spedizione diretta nell’Alto Sikkim. Quando si presenta all’appuntamento – immaginiamo che cosa poteva essere il bagaglio in quegli anni per un viaggio del genere – ha con sé un paio di legni: sarà il primo a sciare su quelle nevi.
«Oggi mi son messo gli sci: per la prima volta quest’anno e per la prima volta sulle nevi himalaiane. La sorpresa dei portatori è stata grandissima. Non avevano mai visto simili trespoli. Appena siamo giunti alla neve (a circa 4.000 metri) si sono fermati per riscaldarsi una tazza di cià (il tè tibetano con burro, sale e soda). Mentre attendevano al pentolone in cui l’acqua bolliva, ho calzato gli sci e zitto zitto sono salito sulla cima di un poggetto non lontano [e] sono disceso per il pendio [...] Più tardi m’hanno confessato che avevano avuto una grande paura, mi credevano padrone di forze soprannaturali» (Un Sestrière del futuro, «Corriere della Sera», 14.2.1938, in Farfalle e ghiacciai, Editoriale Domus, 2008, p. 77).
[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 2/20, pp. 308-314, è acquistabile qui]
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