«Ma è una cosa importante?» dice Mimmo Lucano quando, in una delle tante interviste pubblicate sulla rete, qualcuno gli riporta che è stato inserito dalla rivista «Fortune» tra i cinquanta personaggi più influenti del mondo. L’espressione del sindaco di Riace è un punto di mezzo tra un prudente compiacimento e una prudente diffidenza; tra la soddisfazione di un riconoscimento mediaticamente forte, che può consolidare la reputazione del suo progetto, e l’esitazione di fronte alla potenziale evanescenza di certa comunicazione. La trama della vicenda del suo comune tiene insieme persone tra loro distanti che stanno sulla scena – uso un’immagine cara a Peter Brook – come fili multicolori intrecciati, ognuno dei quali, a seconda del punto di vista dello spettatore, racconta una storia. Tra le vie ordinariamente vuote di questa strana enclave negli ultimi anni hanno camminato profughi, turisti, gente del luogo, registi come Wim Wenders, curiosi, giornalisti. La narrazione che vince nella comunicazione mediatica è quella buonista dell’accoglienza, sostenuta da una serie di retoriche pronte all’uso che, capovolte all’occorrenza, rendono coese anche le tesi di chi rifiuta il modello. Eppure il problema che Mimmo Lucano mette in questione non riguarda i principi umanitari, che qui per fortuna sono assiomatici, bensì la costruzione di un presente possibile per il suo paese. Il problema riguarda «ciò che resta di quello che transita», sia in termini di capitale umano, sia in termini di senso e di pensabilità del luogo.
«Fortune» è una rivista che si occupa di economia globale, le cui classifiche incidono certamente sulla reputazione delle imprese. Nella gerarchizzazione dell’influenza delle singole persone in contesti diversi, i parametri non sono completamente economicistici, e quindi è difficile sia cogliere il senso del termine «influenza», sia valutarne la portata. In altre parole, riprendendo la domanda di Lucano, non sappiamo se essere inseriti in questa lista sia importante. È certo invece che la citazione del sindaco di Riace nella rivista cambia il senso della storiella resa famosa da Jean-Paul Fitoussi, ovvero dell’ubriaco che cerca le chiavi smarrite sotto un lampione non perché creda di averle perdute lì, ma perché lì c’è la luce. «Fortune» illumina Riace, indica un luogo in un contesto europeo, al tempo di certezze barcollanti, in cui legittimamente si può cercare, si può valutare un’opzione possibile, in cui si tenta la costruzione su scala micro di una possibilità sociale.
L’idea di fondo sembra quasi banale, consiste – in un Paese in cui la curva demografica è in calo costante – nell’aprire delle case vuote ai migranti in cerca di un posto. Mimmo Lucano prova – metto in corsivo le sue parole – a riempire i vuoti: la scuola, la piazza, il bar, ma anche un’idea vuota di futuro. Il tentativo è quello di convertire in scelta le necessità di tutti gli attori coinvolti. La tensione dichiarata è verso un’utopia della normalità, con tutta l’opera che necessita per trasformare l’utopia in un programma di lavoro. Riace conta oggi poco meno di 1.800 abitanti, dal 1998, anno a quo in cui approdò sulla riva riacese un barcone con a bordo duecento persone di nazionalità kurda, il paese ha ospitato circa 6.000 richiedenti asilo, 400 dei quali sono rimasti stabilmente a vivere nel paese. Chi resta impara l’italiano, alcuni s’impiegano nell’edilizia e nell’agricoltura, nella raccolta differenziata dei rifiuti; altri, dopo la frequenza di corsi di formazione, inventano o reinventano tradizioni e si fanno artigiani tessili o della ceramica. I più, come detto, ripartono per un altrove, per la vera meta iniziale del loro viaggio, come è logico che sia in una terra la cui storia è scandita da molteplici ondate migratorie.
La partita simbolica che gioca Lucano è difficile, e riguarda l’ordito della memoria. Diversi indicatori dimostrano che il calo demografico è inarrestabile e che un ripopolamento del luogo, allo stato dei fatti, non è ipotizzabile. Contro questo destino vuoto, Mimmo Lucano costruisce una dimensione antistrutturale che tiene insieme, in uno spazio liminale, riacesi e migranti, fosse anche per i soli sei mesi dei progetti dello Sprar. Victor Turner indica come tempo liminale quello in cui un gruppo, dopo una fase di crisi, rischia di trovarsi privo di risposte culturali. Quello del limite è lo spazio del «forse non più» e del «forse non ancora», il momento in cui fattori culturali possono essere rimescolati in molti modi, secondo combinazioni anche creative e non solo nei modi dettati dall’esperienza. Le persone diverse che convergono a Riace «paese dell’accoglienza» sono complessivamente prese in una dimensione performativa che diventa un dispositivo autoriflessivo, una specie di metacommento che ha una sua precisa efficacia simbolica, perché in grado di guardare la realtà da un altro punto di vista e in una certa misura risemantizzarla. L’accoglienza praticata, in questo senso, tende a immaginare una comunità possibile, a rifondarla in una storia. Un signore anziano, in una intervista, sostenendo la bontà del progetto Lucano, afferma: «ci siamo ancora, mentre prima eravamo tutti morti». Questa affermazione richiama alla memoria i versi che un bracciante lucano riportò a Ernesto de Martino negli anni Cinquanta: «sono nel mondo come non ci stessi / mi hanno messo nel libro degli spersi». Le parole del bracciante evocavano il rischio che la propria vita naturale potesse sopravvivere a quella culturale, l’eventualità angosciosa di essere ancora vivo in un mondo vuoto di segni, senza futuro, pertanto indecidibile. Profugo nel proprio luogo. L’abitante di Riace e il migrante, per un tempo definito e per tanti versi non completamente normale, negoziano - il richiamo è ad Abdelmalek Sayad - la rispettiva doppia assenza, creano, almeno per un periodo, un tempo che non c’era. Per ora conta solo questo, non la fase successiva che Turner chiama della reintegrazione, quando sulla media distanza si valuteranno gli esiti concreti di questo processo.
L’azione di Mimmo Lucano resta fondante, in ogni caso. Un sindaco di un paese meridionale si interroga, nel momento della crisi, non sulla pericolosità dell’altro, ma sulla consistenza e sulla resistenza del proprio sistema culturale; mentre l’emigrazione mette in discussione alcuni ordini socio-politici globali, a Riace si discute della doppia accezione della parola ospite. Se nella scelta di «Fortune» questi aspetti sono stati decisivi, allora l’inclusione di Mimmo Lucano nella lista è davvero importante.
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