Firenze è un inganno. Sicura nel mostrare la sua sfacciata bellezza, quando cominci a darle del tu, la scopri inibita dal suo stesso splendore. Il passato riempie l’occhio come la cupola del Brunelleschi e nella via di fuga del futuro è difficile immaginare altro. Ma a inizio ottobre, la città si è giocata una chance audace, per farsi guardare da una prospettiva inedita: un occhio contemporaneo che ha spiato attraverso gli scorci più tipici, per scattare fotografie capovolte. Uno ieri rovesciato nell’oggi come un bicchiere lasciato a maturare, capace di inattesi lampi organolettici in una bevuta goduta senza reverenza. La partita si è intitolata Play It!, un festival dedicato alla musica contemporanea italiana, concepita dal compositore Giorgio Battistelli, direttore artistico dell’Orchestra della Toscana. Le regole del gioco sono state queste: due concerti per tre giorni, uno al pomeriggio cameristico, uno alla sera sinfonico, e nel mezzo, il 7 ottobre, una libera assemblea dedicata agli Stati Generali della Creatività. Il risultato: venticinque composizioni eseguite in prima italiana e mondiale, venticinque compositori di provenienza anagrafica e geografica disparata, nomi notissimi al fianco di puri outsider, quattro le autrici giunte dall’Aquila, Genova, Udine e Roma, tre i direttori, vari i solisti, sempre italiani, ruotati sul podio che ha posto di fronte all’Orchestra della Toscana un autentico tour de force stracittadino. Un salto nel buio staccato per primo da un presidente ex presidente della Regione Toscana, Claudio Martini, che da anni conduce un programma di musica colta su Radio Toscana Classica. Intorno, la Firenze che non ti aspetti, tenuta insieme da percorsi camminati a piedi da centinaia di avventori, che inseguendo la musica si sono ritrovati per un boccone da Gastone, il ristorante dietro l’angolo del Teatro Verdi, o in fila agli Uffizi, per vedere un altro giocatore di quei giorni, Francesco Clemente, che esponeva le settantotto carte dei suoi tarocchi.

Ecco Firenze che non ti fa sentire turista quando in strada incontri le facce dei compositori di Play It!, sorpresi pure loro da questo ondeggiare di musicisti nella corrente della città: i sei concerti della serie, ristretti in un pizzico piccolo di tempo, inducono a restare il giorno dopo e il giorno dopo ancora. L’ingresso libero pomeridiano e il biglietto simbolico la sera sono l’incentivo che trasforma la curiosità in attesa.

In via di San Gallo, la chiesa dell’ex convento delle monache camaldolesi intitolata a Sant’Apollonia è stata trasfigurata in Auditorium. Oggi è un ampio rettangolo ricoperto di parquet, sormontato da nobili campate nella parte posteriore, a tracciare il gesto grafico delle antiche navate. Alcuni secenteschi affreschi si affacciano alle pareti e in fondo un austero coro saluta il capo opposto della sala, rifinita con acciaio e cristallo. Il tempo qui assume il ruolo di protagonista birbante, nel suono contemporaneo che fa a schiaffi con un passato addirittura remoto: poco più in basso riposa una necropoli di milleottocento anni fa. Alle 18 del 6 ottobre prende avvio, con buona puntualità, Play It!. C’è emozione e aspettativa per chi ha scommesso sulle opere ignote degli autori di oggi, in una città che ha gli occhi piantati nella nuca. L’altare è della musica, con le sagome orizzontali dei vibrafoni e delle marimbe profilate sotto l’abside affrescata. Attimi di silenzio. Gli affondi verticali della prima partitura in programma allontanano ogni dubbio: lo sguardo corre intorno, e torna al punto di partenza appagato dal tutto esaurito, sorvolando le teste, equamente distribuite tra folte e calve, di compositori, interpreti e addetti ai lavori della musica, giunti a Firenze con i “se” e i “ma” di un biglietto di sola andata. Ma la liturgia dei sei concerti di Play It! celebra il successo ogni pomeriggio, e lo ribadisce nel controcanto serale degli appuntamenti al Teatro Verdi.

Il secondo round ha luogo l’indomani in via dell’Oriuolo, alla Biblioteca delle Oblate. Il passato incombe dall’alto di un’età che si conta dal 1287, anche qui ci si chiude in un ex convento per aprirsi a nuove vedute e il colpo d’occhio sul presente ha la sfrontatezza fricchettona dei giovani delle Oblate di oggi. Un intreccio di rampe inclinate, schierate su tre livelli intorno a un chiostro avvolto da piante rampicanti, conduce a una biblioteca nuova di zecca, dove lo studio va a braccetto con lo svago. In cima si raggiunge l’altana, riparata da una copertura in legno e laterizio, da cui si gode di una vista accecante: Santa Maria del Fiore ci guarda negli occhi, dritta e vicina davanti a noi. Alle 10 di mattina gli Stati Generali della Creatività cominciano a brulicare di idee. Sono trenta, o forse più, gli artisti convocati: architetti, danzatori, scrittori, registi, performer. Maurizio Braucci parla di dittatura della democrazia, Francesca Grilli racconta le utopie dei cantanti sordi, Francesca Foscarini danza tra di noi. Si pranza insieme, menu fisso, prezzo popolare. Perché gli eventi si susseguono tenendo la gente di Play It! unita e alle 18 si scende a piano terra, nella biblioteca storica a scaffale chiuso che cela il passato di Firenze, la cui geometria lunga e stretta è disorientata dall’assetto dell’Orchestra, pronta a esibirsi dando il profilo a due ali di pubblico, disposto sui lati corti della stanza.

L’ultimo squarcio di una Firenze mai vista è datato 8 ottobre, e ha la cornice di un palazzo che ospitò l’Accademia della Crusca. Abitualmente chiuso al pubblico, Palazzo Medici Riccardi ha lasciato che il suo lucchetto fosse insinuato da Play It!. Schiudendosi, la porta del salone intitolato a Carlo VIII mostra un soffitto a cassettoni lungo cui slogare le pupille. Anche i grandi arazzi, trafitti dai suoni minuziosi di fiati, archi e percussioni, appaiono oggi meno severi.