Ci sono questioni sulle quali il Parlamento preferisce tacere, lasciando che sia la magistratura a essere coinvolta. Il potere giudiziario è tenuto a pronunciarsi su tali questioni, anche se non richieste né desiderate, poiché non può decidere di non occuparsene (in base al principio del divieto del non liquet), come sovente avviene per le Camere.

Gli esempi di latitanza da parte del Parlamento, pur a seguito di precisi moniti del giudice delle leggi, sono molteplici e sono stati di recente richiamati anche dal presidente della Corte costituzionale: tra gli altri, il mancato seguito alle sentenze sul doppio cognome e sulla condizione anagrafica dei figli di coppie dello stesso sesso. Fra tutte le materie volutamente non prese in considerazione, quella maggiormente ignorata – anche solo per una questione di allarmante ritardo – riguarda il fine vita.

L’espressione fine vita può essere considerata, per certi versi, anche impropria, poiché comprende diverse situazioni, tutte accomunate dall’intento di riconoscere al soggetto, capace di decidere liberamente e consapevolmente, il principio dell’autodeterminazione, anche se ciò dovesse comportare, per l’appunto, la fine della propria vita.

In Italia, la regolamentazione del fine vita è ancora lontana dall’essere permissiva, per due reati che risalgono al periodo fascista (correva l’anno 1930) e che limitano (in modo costituzionalmente irragionevole) la possibilità per coloro che lo richiedano di porre fine alle proprie sofferenze. Questi limiti di tipo assoluto costringono molti a lasciare il nostro Paese per recarsi in luoghi dove è possibile richiedere un trattamento di fine vita che in Italia è vietato. Tanti sono comunque coloro che, a causa della mancanza di assistenza e di risorse economiche, non possono ricorrere a quello che, con estremo cinismo, è stato da taluni definito turismo dei diritti – esercitato da chi, recandosi all’estero, riesce a sottrarsi alle pene draconiane previste agli articoli 579 e 580 del Codice penale. Il primo dei due articoli riguarda l’omicidio del consenziente, il secondo l’aiuto al suicidio.

In Italia, la regolamentazione del fine vita è ancora lontana dall’essere permissiva, per due reati che risalgono al periodo fascista e che limitano la possibilità per coloro che lo richiedano di porre fine alle proprie sofferenze

Ci sono comportamenti che si assumono perché si ritengono giusti, anche se sono vietati dal Codice. Si disobbedisce a una legge pur andando incontro a una pena allo scopo di attivare tutti quei processi che potrebbero portare a una rivisitazione legislativa o, addirittura, all’eliminazione della norma ritenuta ingiusta. E questo senza avere la certezza di riuscire nell’obiettivo; ogni atto è consapevole e la persona che lo compie accetta (diversamente non potrebbe) la conseguenza prevista dalla legge.

Grazie alla disobbedienza civile di alcuni si è dato il via a un iter giudiziario che ha fatto sì che sull’aiuto al suicidio sia intervenuta la Corte costituzionale, in due occasioni: con la prima decisione (ordinanza 207/2018) ha cercato una leale collaborazione con il Parlamento, che, però, ha “risposto” con un silenzio insofferente che ha riattivato il processo costituzionale, portando alla sentenza n. 242/2019. Con tale ultima pronuncia è stato dichiarato incostituzionale il divieto assoluto dell’aiuto al suicidio, il che significa che non è più punibile chi agevola il suicidio di chi, affetto da una patologia irreversibile e oppresso da sofferenze psico-fisiche che ritiene insopportabili, rimane comunque capace di esprimere un libero consenso. A queste tre condizioni, si aggiunge quella per la quale la persona sopravvive esclusivamente grazie a trattamenti di sostegno vitale.

Sull’occorrenza di quest’ultimo requisito, il Gip di Firenze, con ordinanza di rinvio del 17 gennaio 2024, ha chiesto alla Corte costituzionale di pronunciarsi sulla ragionevolezza della normativa. Più in particolare, il giudice ha sollevato la questione della necessità che la non punibilità di chi agevola il suicidio di altri sia subordinata alla circostanza che l’aiuto sia fornito a una persona “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”, impugnando così l’articolo 580 del Codice penale, come modificato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019. Il giudice fiorentino si è rivolto alla Corte perché, dopo la sentenza del 2019, il Parlamento non ha affrontato la questione e ha continuato a tacere, ignorando il problema della parzialità (diremmo strutturale) della decisione del giudice costituzionale che non copre la richiesta di morte dignitosa di coloro che, pur affetti da una patologia irreversibile che causa sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, e pur restando capaci di prendere decisioni libere e consapevoli, non sono tenuti in vita mediante trattamenti di sostegno vitale.

Il Parlamento non ha dato seguito neanche alla decisione della Corte riguardante la procedura da seguire per richiedere il trattamento di aiuto al suicidio: non ha stabilito nulla circa le modalità di esecuzione del trattamento e su come i requisiti debbano essere verificati da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. La conseguenza finora è stata quella dei ricorsi, evidentemente con aggravio economico e soprattutto temporale (di prolungamento delle sofferenze).

La latitanza è allora una costante, se si considera che sono passati 5 anni da quel 24 settembre in cui è stata pubblicata l’ordinanza n. 207; e sono passati 11 anni da quando l’Associazione Coscioni presentò una proposta legislativa popolare sull’eutanasia. Un disegno di legge appunto mai discusso.

Nemmeno il corpo elettorale ha potuto dibattere ed esprimersi su tali tematiche, dal momento che la Corte costituzionale (sentenza n. 50 del 2022) non ha dichiarato l’ammissibilità del quesito referendario che intendeva abrogare parzialmente la disposizione sull’omicidio del consenziente, procedendo con un giudizio di merito in una fase, quella dell’ammissibilità, in cui però non avrebbe potuto occuparsene (così come rilevato da ultimo da un autorevole costituzionalista che faceva parte di quel collegio).

E allora, se il Parlamento resta in silenzio e al legislatore referendario non viene data la parola, si cercano altre strade; quelle attualmente perseguite sono la via della legislazione regionale e quella giudiziaria. Entrambe rimangono parziali; la prima perché, al di là della problematica inerente la (in)competenza, determinerebbe una legislazione a livello di singola regione, la seconda perché rimane limitata al singolo caso in un ordinamento in cui manca il vincolo del precedente. Anche un nuovo intervento della Corte costituzionale si scontrerebbe con i limiti propri di una giurisdizione che non può operare come un legislatore.

Dal 2019, la Corte costituzionale ha deciso di intervenire per porre rimedio a un vulnus costituzionale, ma è palesemente insufficiente consentire l’aiuto al suicidio solo a chi potrebbe comunque porre fine alle proprie sofferenze interrompendo i trattamenti di sostegno vitale

Dal 2019, la Corte costituzionale ha deciso di intervenire per porre rimedio a un vulnus costituzionale, ma è palesemente insufficiente consentire l’aiuto al suicidio solo a chi potrebbe comunque porre fine alle proprie sofferenze interrompendo i trattamenti di sostegno vitale che devono essere attivati e richiedendo una sedazione palliativa profonda (così come permesso dalla l. n. 219 del 2017, in tema di consenso informato). La Corte, forse, più di questo non poteva fare, a differenza del Parlamento che potrebbe e dovrebbe intervenire nel rispetto del giudicato costituzionale, vale a dire della tutela bilanciata del principio di autodeterminazione e dei soggetti più vulnerabili. La presenza o meno di un trattamento salvavita, oltre a essere un’eccezione nei Paesi che hanno legiferato sull’aiuto al suicidio, non contribuisce affatto alla tutela dei soggetti vulnerabili. Assumere come elemento dirimente la disparità delle situazioni che possono interessare il fine vita, per come argomentato, è insensato, poiché l’unico fattore che teoricamente le distingue ‒ la dipendenza dai trattamenti di supporto vitale ‒ non giustifica, se presente, una previsione più favorevole da parte dell’ordinamento o indica, se assente, maggiore meritevolezza della tutela di soggetti vulnerabili e più grave sanzione per i terzi coinvolti. In altre parole, il requisito-criterio in questione sembra incapace di effettuare una selezione ragionevole tra situazioni simili.

Resta dunque da attendere la decisione della Corte costituzionale, la cui composizione, se l’organo non dovesse esprimersi prima del 2025, sarà notevolmente rinnovata rispetto a quella del 2018 e del 2019. Per inciso, si fa notare che il Parlamento, ancora una volta per una carenza grave e ingiustificata, non ha ancora eletto, dallo scorso 26 novembre, un giudice di sua spettanza, e a partire dal 21 dicembre 2024 sono altri tre i giudici che dovrà eleggere: un totale di 4 su 15.

L’attesa di una decisione parlamentare conforme al parametro costituzionale non può più protrarsi a oltranza, soprattutto considerando il monito ulteriore pronunciato (lo scorso 18 marzo) dal presidente della Corte costituzionale che auspica un “seguito alla sentenza n. 242 del 2019”.

E allora ‒ ci si chiede ‒, alla luce dell’articolo 3, comma 1, della Costituzione, la Corte potrebbe non tutelare pienamente il principio di eguaglianza che impone alla legislazione (anche quella derivata dalla giurisprudenza costituzionale) di non discriminare per “condizioni personali” chi richiede aiuto medicalizzato per morire, pur non essendo nelle condizioni finora rilevate dalla Corte medesima e quindi indipendentemente dalla presenza di un trattamento salvavita? Come si può non considerare superfluo un requisito che non fornisce alcuna indicazione sull’autenticità della decisione di morire o sulla vulnerabilità della persona che decide?

Di fronte a una malattia incurabile che provoca sofferenze insopportabili, la presenza di un trattamento salvavita non protegge alcun valore, tanto meno costituzionale.