La riforma costituzionale di cui tra poco si decideranno le sorti risente, innanzitutto, di taluni gravi vizi di origine. Trattandosi di una legge di revisione costituzionale, avrebbe dovuto essere il frutto di un’iniziativa parlamentare, e non governativa come invece è stato. Non escludo che l’iniziativa delle leggi costituzionali possa spettare al governo, ma non quando si tratti di revisioni costituzionali. In tal caso, l’iniziativa legislativa del governo finisce giocoforza per esprimere il proprio indirizzo politico, laddove, data la superiorità della Costituzione su tutti gli atti normativi dell’ordinamento, la stessa procedura di revisione dovrebbe essere mantenuta ad un livello più elevato (e partecipato) delle leggi ordinarie.
Non è quindi un caso che l’iter di approvazione della riforma Boschi abbia registrato tutta una serie di storture procedurali: sostituzione arbitraria di componenti della commissione in sede referente; utilizzo della tecnica del «super-canguro» per eliminare gli emendamenti potenzialmente pericolosi; esclusione del relatore di minoranza; disapplicazione di un importante «precedente» dello stesso Napolitano quand’era presidente della Camera (1963) e così via.
A rigore, questa riforma non avrebbe dovuto essere nemmeno presentata alle Camere. La Corte costituzionale, appena un mese prima, aveva infatti dichiarato l’incostituzionalità della legge elettorale (sentenza n. 1, 2014) in forza della quale la XVII legislatura era stata eletta. La Consulta, per rendere possibile l’approvazione di una legge elettorale sostitutiva del cosiddetto «Porcellum» aveva perciò invocato il «principio della continuità degli organi dello Stato». Nel contempo aveva però avvertito, citando gli articoli 61 e 77 della Costituzione, che tale principio incontra tutt’al più il limite temporale di pochi mesi. È quindi evidente l’azzardo col quale, nonostante la sentenza della Consulta, venne iniziata una così importante revisione costituzionale con un Parlamento formalmente e sostanzialmente delegittimato. Il che è comprovato dal record delle migrazioni di deputati e senatori da un gruppo all’altro, nella speranza di precostituirsi un futuro politico.
La legge Boschi (pur essendo stata approvata in «falsa» applicazione dell’art. 138 Cost.) non è una legge di «revisione», come tale contenutisticamente «puntuale» e «omogenea» che l’elettore può confermare o respingere con un solo «sì» o «no», come è comprovato dalla legge n. 352 del 1970, redatta in attuazione dell’articolo 138, quando ancora non si pensava alle «riforme».
La legge Boschi è invece una legge di «riforma» dal contenuto disomogeneo che l’articolo 138 non contempla. I quesiti posti dalla riforma Boschi, con i suoi 47 articoli, sono molti, e comunque almeno tre di essi (modifica della forma di governo, dei rapporti Stato-regioni e abolizione del Cnel) coerciscono la libertà di voto dell’elettore, il quale, avendo a sua disposizione solo un voto, non può esprimersi su tutti i quesiti.
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