Le azioni dimostrative dei militanti di Ultima Generazione rilanciano il tema, piuttosto antico, del senso e del significato del gesto contro le leggi fatto in nome di una giustizia che si presume essere non solo diversa, ma superiore. Per certi versi è sproporzionato metterla così per atti che vorrebbero essere clamorosi, ma che per fortuna sono limitati nei guasti che producono. Da altri punti di vista ci si chiede se non siamo in presenza dei primi segnali di comportamenti che possono indirizzarsi in direzioni molto pericolose. Di qui la necessità di ragionare freddamente, perché le componenti che possono stare alla base di questo modo di “fare politica” sono molteplici.

Quella in un certo senso più generale è il mito dell’azione simbolica e della scintilla come origine di ogni incendio. Si pensa che ci sia una necessità di risvegliare le coscienze circa l’esistenza di un certo pericolo e che lo si possa fare solo mettendo in scena qualcosa di eclatante, in modo da riaccendere l’attenzione e la passione dell’opinione pubblica. Naturalmente ciò comporta la necessità di dare una visione il più possibile “terribile” del pericolo che si vuole denunciare, il che a volte è facilmente riscontrabile (pensiamo a gesti contro una dittatura), ma altre volte può apparire piuttosto esagerato (la pretesa che siamo di fronte a una catastrofe climatica che annienterà in breve l’abitabilità della Terra). Il gesto eclatante può essere violento verso sé stessi (si pensi ai bonzi che si davano fuoco in Vietnam), più o meno violento verso “cose” simboliche, al limite violento, anche fino all’estremo, verso persone che vengono identificate come portatrici o comunque complici del “male”.

Tutto si sublima nel mito del “gesto eroico”, che tale diventa non solo per il carattere estremo di ribellione, ma anche, più banalmente, nella convinzione che l’essere puniti dalla società per queste azioni sia già sufficiente per far iscrivere l’azione nella categoria dell’eroismo (esagerando un po’, del martirio). Si tratta di una dinamica molto presente nella storia dell’umanità, dal mito di Bruto che uccidendo Cesare impedirà l’instaurazione del Principato in luogo della Repubblica a quello del luddismo che pensa di fermare la trasformazione economica distruggendo i telai meccanici, a tutte quelle imprese che le varie forme di terrorismo moderno hanno messo in campo.

Può prevalere la convinzione, o l’illusione, che sia obbligatorio che il singolo “faccia qualcosa” (di estremo) per non subire passivamente un destino generale che ritiene inaccettabile

Un elemento che tende a tenere insieme queste componenti è la convinzione, o l’illusione, che sia obbligatorio che il singolo “faccia qualcosa” (di estremo) per non subire passivamente un destino generale che ritiene inaccettabile. Certamente il singolo può agire con altri sfruttando la solidarietà della compartecipazione a un certo convincimento, ma in definitiva a dominare è un destino di singolarità, nonostante spesso sia circonfuso di un vago comunitarismo che invece è semplicemente settarismo. Alla base c’è infatti la convinzione che ciascuno della setta ha ricevuto una “rivelazione” che lo mette a parte di un aspetto nascosto della realtà che egli attraverso la sua azione deve rivelare al mondo. Ciò spiega perché in genere è molto difficile interagire con chi è caduto in queste spirali, perché egli crede impossibile misurarsi con chi è, colpevolmente o meno, “all’oscuro” di quel che lui ha capito.

Se riflettiamo su questi universi, è bene non cadere nel semplicismo di liquidare come “carnevalate” quanto non raggiunge livelli di violenza significativa. Siamo davanti a fenomeni che non nascono da semplici esaltazioni e devianze individuali o di gruppo, ma si radicano in contesti che le hanno allevate a volte con una certa cura.

Credo si pongano una serie di problemi. Il primo è la mitizzazione dell’attesa del ritorno a una sorta di paradiso terrestre in cui sia possibile vivere senza le contraddizioni e le asperità della storia. La nostalgia di vere o presunte età dell’oro fa parte del vissuto dell’umanità in una sorta di eterno ritorno. Specialmente nelle fasi di transizione storica come quella che stiamo vivendo, il timore dell’incognita rappresentata da un futuro che si teme di non essere in grado di dominare razionalmente porta a credere che sia possibile approfittare della crisi in atto per instaurare una forma nuova di società libera dalle “catene” del passato. Lo si può fare sia illudendosi che ci sia già stato un tempo in cui quelle catene non esistevano o erano più leggere, sia altrettanto illudendosi che si possa immediatamente uscire da un contesto soggetto a una trasformazione che non piace (ma si possono avere entrambi gli approcci mescolati in vario modo).

È difficile nascondersi che viviamo in un clima intellettuale che tende a esasperare le angosce verso il futuro. Probabilmente per timore di perdere il ruolo di maître à penser in una società che tende a fidarsi più che altro della “ingegneria” (da quella dell’economia a quella dell’algoritmo e dell’Intelligenza artificiale) coloro che fanno opinione sembrano prediligere una narrativa catastrofista che vede tutto in crisi e che di conseguenza lascia intravvedere la salvezza nell’attesa di qualche nuovo profeta e/o messia. Di conseguenza cresce una tendenza al fiorire di un certo numero di novelli Giovanni il Battista in sedicesimo, i quali invitano alla conversione ai tempi nuovi, cosa che spinge alcuni a provare dilettantesche imprese che si presume siano profetiche. Uno sguardo disincantato alle dinamiche di quelle nuove commedie dell’arte che sono i talk show delle grandi reti televisive potrebbe aiutarci a fare osservazioni interessanti a proposito di quanto stiamo dicendo.

Un altro problema rilevante è la perdita della consapevolezza che l’azione politica è qualcosa che si sviluppa nel tempo. Si potrebbe buttarla sul filosofico e ricordarci che la perdita dell’archetipo temporale tipico delle società parametrate culturalmente sull’agricoltura (l’albero ci mette anni a crescere e a dar frutto, c’è il succedersi ciclico delle stagioni ecc.) ci ha spinto alla cultura del tutto e subito. Poiché siamo una società di consumatori che si accostano a prodotti finiti senza alcuna conoscenza istintiva delle loro fasi di creazione e delle complessità che contengono, abbiamo perso la virtù della “pazienza” che non è l’arrendersi al tempo, ma essere parte della “passione” che richiede ogni processo produttivo.

Un mondo in cui il riformismo ha perso la sua spinta propulsiva diventa un mondo in cui ci si rivolge al mito della “rivoluzione”, anche se questo termine non si usa più

Dire che di conseguenza sta declinando il “riformismo”, che è appunto la versione politica della gestione del tempo di realizzazione di qualsiasi obiettivo, suona banale, ma è in corrispondenza col rinascere della cieca fiducia che la trasformazione sia opera di mani invisibili (il mercato?) che, non si capisce per quale logica e ragione, provvederebbero da sole a ciò che si suole chiamare il progresso. Un mondo in cui il riformismo ha perso la sua spinta propulsiva diventa un mondo in cui ci si rivolge al mito della “rivoluzione”, anche se questo termine appare ormai desueto: ma cos’altro è la convinzione che sia possibile in tempi rapidissimi farci entrare tutti in un mondo nuovo?

Come stupirci allora se cresce il fascino per tutto quanto si pensa possa rovesciare il tavolo su cui stanno cibi ormai definiti immangiabili, sicché se ne apparecchi immediatamente uno completamente nuovo con le cibarie proprie dell’età dell’oro? Non si tratta di fenomeni che riguardano solo quelli estremistici da cui abbiamo preso le mosse, perché sono dinamiche che vediamo quanto meno presenti (talora dominanti) nella maggior parte delle forze politiche italiane e non solo.

Naturalmente, e torniamo all’inizio dei nostri ragionamenti, la deriva del gesto estremo sta dentro il quadro che abbiamo cercato di descrivere. Si potrebbe certo dire che un minimo di conoscenza storica condurrebbe alla facile conclusione che di rado i gesti simbolici estremi hanno portato ai risultati auspicati. Per dirla in una battuta, Bruto ha ucciso Cesare, ma non ha restaurato la Repubblica. Si può giocare con la retorica e ricordare i molti “martiri” che hanno inciso sulla storia, il che è vero a patto che si capisca che in quei casi è stato, salvo rare eccezioni, il contesto e la pazienza di quelli che ci sono rimasti dentro in dialettica col sistema del loro tempo a portare a termine il cambiamento.

In un contesto come quello attuale in cui si è persa ogni fiducia nel lavoro politico come paziente costruzione di progressi e lo si è trasformato in un mix tra agitazione e testimonianza (non si sa poi bene di cosa), è assai pericoloso un rifiuto a considerare i rischi a cui porta la benevola considerazione del gesto eclatante contro ogni regola e ogni rispetto per l’appartenenza a una più vasta comunità politica (reale, non quella immaginata dei “puri” che attendono il messia). Se è vero che si tratta di comportamenti che nascono anche da una forma di esasperazione infantile per la sordità della politica a certi problemi, non si deve tacere che di fronte alla persistenza di ciò che viene interpretato come sordità, mentre è spesso presa in carico della tortuosità dei percorsi necessari per risolvere i problemi, c’è più che il rischio che, come si usava dire una volta, si alzi il livello dello scontro. Sappiamo per esperienza cosa vuol dire e i guai che può combinare.