Gli omicidi mirati, i cosiddetti targeted killings, sono oggi al centro del dibattito pubblico mondiale. Frequenti articoli e lunghi approfondimenti segnalano una crescente preoccupazione a livello internazionale per una pratica che sta sfuggendo di mano e che sta facendo centinaia, forse migliaia di vittime tra civili innocenti. Secondo le stime del Bureau for Investigative Journalism solo nel 2011 circa 900 civili, tra cui quasi 200 minori, sarebbero stati uccisi dai droni americani. Secondo stime più prudenti, quelle della New American Foundation, tra 150 e 500 civili sarebbero stati uccisi dai droni durante l’amministrazione Obama. I numeri oscillano, ma il problema vero è come determinare chi è un civile, specie in assenza di informazioni sugli obiettivi degli attacchi.
Una delle critiche più pressanti riguardo alla pratica degli omicidi mirati, specie tramite i droni, è proprio che i governi hanno mantenuto troppo segreto intorno ai loro programmi. Preoccupa il fatto che gli Stati abbiano rifiutato di rendere pubblico chi è stato ucciso e per quale ragione. Gli Stati in questione hanno omesso di specificare le basi giuridiche delle loro politiche, di rendere note le salvaguardie adottate al fine di scongiurare errori e minimizzare i «danni collaterali», o di mettere in atto meccanismi di accertamento delle responsabilità per le eventuali violazioni. La richiesta di maggiore trasparenza arriva non solo dai detrattori ma anche dai sostenitori dei targeted killings, ossia da quanti sono convinti che tale pratica sia legittima, giustificata e necessaria al fine di contrastare efficacemente il terrorismo internazionale e affrontare le sfide poste agli Stati impegnati in conflitti asimmetrici.
Nel suo rapporto del 2010 all’Onu, Philip Alston – allora Special Rapporteur sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie – notava che alcuni Stati hanno adottato in anni recenti una politica che permette l’uso dei targeted killings anche sul territorio di altri Stati. altri Stati. Tale prassi, spesso giustificata come risposta necessaria e legittima al «terrorismo» e alla «guerra asimmetrica», «ha avuto l’effetto molto problematico di confondere ed espandere i confini dei regimi giuridici applicabili: il diritto dei diritti umani, il diritto di guerra e il diritto che regola l’uso della forza tra gli Stati». Anche quando le leggi di guerra sono chiaramente applicabili, denuncia ancora Alston, c’è una tendenza a espandere ciò che può essere considerato un target (militare) legittimo e le condizioni di tale identificazione.
[Riproduciamo l'incipit dell'articolo di Chantal Meloni pubblicato sul “Mulino” n. 5/13, pp. 852-860. L'articolo completo è acquistabile qui]
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