Se un’attivista degli anni Settanta si fosse trovata a Genova tra il 18 e il 19 luglio del 2001 avrebbe avuto certamente «quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così» di chi rimane sbalordito e perplesso allo stesso tempo.
Si sarebbe certamente rallegrata di vedere «il mondo», letteralmente, a una manifestazione politica e sicuramente avrebbe riconosciuto attorno a Piazzale Kennedy qualche lontano parente del gruppo che frequentava nelle piazze della sua città.
Tuttavia, non avrebbe capito come accanto a loro vi potessero essere altri che «ai suoi tempi» non solo il suo gruppo non frequentava ma nel caso di malaugurato e non sempre fortuito incontro a volare sarebbero state cose pesanti, non sempre parole.
Addirittura, nel corso del corteo per i migranti del 19, avrebbe visto sfilare anarchici insurrezionalisti dal cappuccio nero insieme agli scout dell’Agesci, le croci al collo di qualcuno della rete Lilliput e le bandiere di Stalin dei marxisti leninisti, i macchinisti della Fiom insieme agli antagonisti, alcuni dei quali con misteriose tute bianche, le femministe con i cattolici…
Anzi, avrebbe visto anche femministe cattoliche: ma cosa stava succedendo? Epperò, alla fine le sarebbe piaciuta tutta quella eterogeneità sociale e culturale protesa verso una giustizia globale.
Lei la chiamava «internazionalismo proletario», ma chi se ne importa se non c’era solo il proletariato, anche ai suo tempi scarseggiava nelle piazze. C’erano però tanti colori, c’era una festa e c’era la felicità pubblica contrapposta all’egoismo privato (parafrasando Hirschmann, autore ancora ignoto ai suoi tempi).
Lei la chiamava "internazionalismo proletario", ma non c’era solo il proletariato, bensì tanti colori, una festa e la felicità pubblica contrapposta all’egoismo privato
Lei lo chiamava capitalismo, a Genova lo chiamavano neoliberismo, ma insomma è sempre quella roba lì, e ci sarebbe stato il tempo di discutere a lungo le analisi, le tesi, le ipotesi e le prospettive, tanto avrebbe visto che lunghe assemblee, riunioni di gruppi di approfondimento, lei le chiamava «commissioni», e documenti politici erano pane quotidiano anche a Genova.
Bene! Anzi no! Perché il 20 pomeriggio, quell’espressione un po’ così sarebbe scomparsa, e la faccia avrebbe avuto occhi gonfi di fumo, se non addirittura zigomi tumefatti. Niente! Le sarebbe sembrato tutto come prima. Come negli anni Settanta, la polizia, intesa in senso lato, picchiava, lanciava lacrimogeni e sparava, e la gente scappava, si difendeva come poteva e veniva travolta.
Avrebbe avuto peraltro il sospetto che la tecnica delle infiltrazioni tra i manifestanti per provocare la «reazione» non fosse scomparsa, anche se l’uso spropositato della forza persino contro le mani bianche alzate delle donne e dei ragazzi in piazza Manin l’avrebbe forse convinta che di «provocazioni» questa «polizia», sempre intesa in senso lato, sembrava non avesse nemmeno tanto bisogno.
Dopo la notizia della morte di Carlo Giuliani, ragazzo, avrebbe certamente avuto la tentazione di tornarsene nei suoi anni Settanta e ricominciare da lì.
Ma alla fine, come gli altri, decide di restare per il corteo del 21 luglio e, ricordandosi di un adagio appena uscito ai suoi tempi di un paio di giovani cantautori genovesi promettenti, si sarebbe accorta che le giornate a Genova non sono poi sempre uguali e che anche lì, a certe condizioni climatiche, si verificano fenomeni temporaleschi: il grido «siete uno di meno» che usciva dalla bocca di alcuni uomini in divisa, il corteo spezzato dai lacrimogeni lanciati dagli elicotteri, l’irruzione alla Diaz e le torture a Bolzaneto.
Le giornate a Genova non sono poi sempre uguali e anche lì, a certe condizioni climatiche, si verificano fenomeni temporaleschi: la notte della democrazia non poteva essere più buia
La notte della democrazia non poteva essere più buia. La strada della nostra giovane attivista la porterà forse fino a Firenze, al social forum europeo, e persino alle imponenti manifestazioni contro la guerra.
Avrebbe visto le torri cadere giù per via di un attacco terroristico che trovava linfa vitale in quelle sperequazioni sociali e ingiustizie globali ampiamente discusse all’interno del movimento – Cassandra è il titolo di una mostra di immagini, foto, audio, video, parole, tante parole, dedicata a quelle giornate allestita a Genova venti anni dopo.
E avrebbe visto via via un pezzo di eterogeneità andare via, i cattolici di Lilliput, gli antagonisti radicali, gli anarchici, spillover (per indicare il trasferimento di energia da un movimento a un altro) direbbero alcuni studiosi di movimenti, spillout (per indicare il prosciugamento di quelle stesse energie nel movimento per la giustizia globale) secondo Sidney Tarrow.
E proprio quando la crisi economica del 2008 aveva definitivamente dato ragione agli attivisti che da Seattle, a Praga, da Napoli a Genova, da Porto Alegre ad Atene, spiegavano che un sistema economico basato sulla logica della speculazione finanziaria e dello sfruttamento intensivo delle risorse – non solo provocava ingiustizie, inquinava il mare e la terra, cambiava il clima e creava povertà ma – non avrebbe potuto funzionare a lungo termine, avrebbe visto i movimenti ripiegarsi all’interno dei confini nazionali e prendere forme e strade diverse.
In Italia, addirittura sclerotizzarsi su posizioni di corto respiro portate avanti dalle tradizionali sigle sindacali e dai movimenti antagonisti in competizione, di nuovo, gli uni contro gli altri.
Forse avrebbe fatto in tempo a vedere qualche lampo di speranza nelle mobilitazioni transfemministe di Non una di meno, e negli scioperi globali contro le ingiustizie ambientali e il cambiamento climatico innescati da una ragazzina svedese capace di sfidare i capi di governo dei paesi più potenti al mondo con la sola forza della parola e del suo piccolo corpo.
E forse sarebbe stata costretta a rimanere ancora un altro po’ per via del lockdown imposto a causa di una pandemia devastante, che avrebbe ancora una volta dimostrato di quanto avremmo avuto bisogno che quel movimento-Cassandra avesse trovato orecchie, non manganelli.
In fondo, i temi del movimento sono ancora tutti lì sul tappeto, i nodi irrisolti ancora in attesa di abili marinai disarmati, ché altrimenti avrebbero la tentazione di trattarli come quello di Gordio.
Anzi, le parole del movimento addirittura dominano il linguaggio istituzionale (solidarietà, transizione ecologica, resilienza) e alcune iniziative, come l’investimento in energia rinnovabile, un piano di riduzione delle emissioni di carbonio, un piano di tassazione globale sulle grandi aziende, l’impegno per l’uguaglianza di genere e leggi contro l’odio razziale e l’omofobia, sono ora proposte da governi e forze politiche istituzionali. Certo le parole a volte appaiono svuotate del significato che quel movimento attribuiva loro e le proposte e gli interventi ancora troppo timidi per raggiungere la luna indicata dal dito spezzato del movimento.
Ma quelle idee che camminavano nel teste di chi ha attraversato Genova nel 2001 sono ancora lì ad animare i movimenti di oggi e si sente ancora oggi l’eco di quelle giornate e di quei temporali.
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