Nell’epoca dell’ossessione per la trasparenza, dell’eccesso mediatico delle informazioni, della consultazione virtuale, il cerimoniale della Chiesa cattolica riconduce uno dei momenti più alti della sua funzione di governo al segreto più rigoroso della Cappella Sistina. Dopo, dal nome del futuro pontefice, potremmo cercare di immaginarci quali siano state le dinamiche e le ragioni che hanno presieduto a questa scelta. Ma si tratterà solo di uno sguardo parziale su quanto avvenuto in sede decisionale – il resto sarà uno spazio vuoto, che i media provvederanno ben presto a riempire di congetture e ipotesi. I cardinali elettori entrano in conclave dopo essersi presi un certo tempo di riflessione e di confronto, resistendo in parte alle pressioni dell’apparato curiale per una risoluzione il più rapida possibile della crisi innescata dalla rinuncia al ministero petrino da parte di Benedetto XVI. Eppure proprio questa scelta rappresenta un discrimine pubblico intorno al quale si dovrà misurare quanto avverrà nel segreto. L’eredità di Ratzinger non consiste né nell’indicazione di un successore, né in un orientamento dottrinale; quanto, piuttosto, in un desiderio: quello di uno stile e una qualità dell’essere Chiesa che non sono stati praticabili nell’arco del suo lungo servizio presso la Santa Sede.
Desiderio di un ethos dell’istituzione che, dopo Paolo VI, si è andato via via sfaldando, in maniera sempre più drammatica, nello scambio delle competenze per l’ufficio affidato con l’adulazione di una fedeltà, tanto retorica quanto inconsistente, al pontefice in carica. Non si tratta semplicemente di una questione di “personale” ecclesiastico (peccatori e malandrini non sono mai mancati nel governo della Chiesa), ma del lento venire meno della forza dell’istituzione a generare un’etica adeguata del servizio svolto in essa. Per ridisegnare questo profilo istituzionale alto della Chiesa cattolica non bastano né santi, né uomini di buona volontà: ci vogliono idee, intelligenza, capacità di gestione, una rete virtuosa di circolazione delle informazioni interne e di verifiche incrociate sull’operato degli uffici di curia. Desiderio di qualità e intelligenza della fede, come cultura diffusa all’interno della Chiesa, per potersi lasciare così definitivamente alle spalle la stagione del mascheramento ideologico delle lacune e incompetenze personali. La Chiesa cattolica ha bisogno di chiamare a raccolta i suoi spiriti più fini e le sue menti migliori, a prescindere da come la pensino su alcuni aspetti particolari della sua missione e presenza nel mondo. Gli steccati costruiti dal Concilio fino a oggi, con la coltivazione auto-referenziale del proprio orticello, hanno fatto male a tutti – dentro e fuori la Chiesa. Desiderio di una parola religiosa capace di andare a incidersi sulle tavole, aperte a tutti, del dibattito pubblico; senza pretese egemoniche, scevra da ogni tentazione di dominio, ma con quella forza evangelica capace di scuotere le coscienze dall’intorpidimento generale in cui sembrano essere cadute – abbindolate come sono dal vortice pubblicitario che smercia la libertà del mercato come surrogato della libertà di pensiero.
È chiaro che per corrispondere all’altezza di questo desiderio non basta una persona, neanche quella del papa che verrà. Perché il cristianesimo non si è mai deciso nel destino di una sola storia, ma sempre all’interno di intrecci culturali e religiosi complessi. Pensare che il futuro della Chiesa dipenderà solo dal “nome” del prossimo vescovo di Roma, significa abdicare alla responsabilità della propria fede. Più che di collegialità, vi è urgente bisogno di recuperare una giurisdizione effettiva dei vescovi sulle proprie Chiese locali; che è stata lentamente sequestrata dalla curia romana sotto l’alone del primato petrino (che è tutt’altra cosa da questa). Più che della pur dovuta trasparenza nella comunicazione e nella gestione delle procedure, c’è bisogno di riscoprire il carattere “fraterno” che tiene insieme il corpo della Chiesa: dove l’insignificanza del povero che crede e dà tutto quello che ha alla comunità dei fratelli e delle sorelle nel Signore vale, ai suoi occhi, molto di più dello splendore immediato di un tesoro così ingombrante da essere destinato a finire ben presto sottoterra per eccesso di zelo e di tutela.
La Chiesa non si edifica aspettando tempi migliori per la sensibilità della propria fede, o architettando, dietro le quinte, la migliore congiuntura istituzionale possibile per i propri interessi (molto terreni di sovente); ma mettendo mano all’aratro per dissodare i terreni del mondo, senza sguardi nostalgici all’indietro – tutti, insieme, ognuno secondo la misura affidatagli da Dio.
Riproduzione riservata