«It is the duty of a patriot to prefer and promote the exclusive interest and glory of his native country: but a philosopher may be permitted to enlarge his views, and to consider Europe as one great republic, whose various inhabitants have attained almost the same level of politeness and cultivation». Le parole che abbiamo appena letto sono tratte dalle ultime pagine del terzo volume di The History of the Decline and Fall of the Roman Empire di Edward Gibbon, pubblicato nel 1781. Oggi ciò che più ci colpisce nel leggerle è probabilmente la caratterizzazione dell’Europa come una “grande Repubblica”. Siamo a pochi anni dallo scoppio della rivoluzione francese, che annuncia un secolo, il XIX, che vede l’emergere dei nazionalismi e l’ingresso del continente in una nuova fase di quella lotta per la supremazia tra le maggiori potenze destinata a durare fino al XX secolo. Eppure lo storico inglese coglie già, nella realtà economica e sociale dei Paesi europei, quella sostanziale uniformità di condizioni di vita, di istituzioni e di cultura che trova la propria – imperfetta – espressione nell’esperimento dell’Unione europea. A ben vedere, la preveggenza di Gibbon non dovrebbe sorprenderci. Esponente tra i più significativi della “storiografia filosofica”, che vede in altri esponenti dell’Illuminismo – come Voltaire, Hume e Condorcet – le sue manifestazioni più influenti, egli reclama per sé un punto di vista speciale, che non è quello dell’interesse nazionale, tipico del “patriota”, ma si identifica invece con una prospettiva più ampia, che sappia cogliere ciò che unisce, piuttosto che ciò che divide, gli abitanti del continente. Nelle nostre condizioni attuali è difficile resistere alla suggestione di quella espressione: “Europa come una grande Repubblica”. Una formula che per noi ha assunto contorni ben più definiti, e la forza che si associa all’intuizione di un destino, ma di cui non siamo ancora in grado di valutare le conseguenze.
Ma non è per la potenza retorica o per il presunto valore profetico che trovo interessante segnalare questo passaggio di Gibbon. Le osservazioni sull’Europa chiudono il volume in cui lo storico ricostruisce le fasi finali dell’Impero romano d’occidente, e ne racconta la fine a opera di Odoacre. Non è quindi nello spirito della celebrazione che Gibbon scrive dell’Europa come di una grande Repubblica, quanto piuttosto in quello di una dolente meditazione sul declino di una civiltà, e sul trasferimento del centro del mondo in un altro luogo, verso Oriente, a Costantinopoli.
Ciò che dovrebbe davvero colpire non è quindi quell’immagine di Europa, ma il fatto che essa sia evocata da una persona che si interroga sulle cause di un fallimento. Su ciò che ha interrotto il processo di cui alla fine del XVIII secolo si intravede la rinascita. Come certi economisti contemporanei, la risposta di Gibbon a questa domanda vede nelle istituzioni il fattore esplicativo principale. A differenza di tali studiosi, però, lo storico inglese ha delle istituzioni una concezione più ricca, che lo porta e indagare non solo la politica e il commercio, ma anche la filosofia, le lettere e la religione, alla ricerca di quelle idee che – operando di concerto con il perseguimento dell’interesse personale – tengono insieme le società. Ne plasmano l’identità e il senso del futuro, alimentando la mutua fiducia e la disponibilità al sacrificio.
Poche righe dopo aver dato voce alla sua visione dell’Europa come una grande Repubblica, Gibbon esprime anche il timore che questa Repubblica possa un giorno crollare, come era già accaduto all’Impero romano, per mano di un “conquistatore selvaggio” proveniente dai “deserti dei Tartari”. Ma si consola al pensiero che le spoglie della civilizzazione europea, e in particolare le sue “istituzioni”, possano sopravvivere e “fiorire” oltre l’Atlantico, in America. Un’altra intuizione che nel XX secolo si affaccia di frequente nel dibattito pubblico continentale, specie negli anni drammatici della lunga “guerra civile europea”.
Perché rievocare le meditazioni sul declino di una grande civiltà del passato di uno storico inglese del XVIII secolo? Nessuno può essere tanto ingenuo da prenderle sul serio come pronostici. Oltretutto, gli scienziati sociali sono oggi molto più cauti di quanto fossero nell’età dei lumi nell’avventurarsi a fare previsioni. L’ammonimento di Max Weber esercita ancora la sua presa, almeno sul dibattito accademico. Eppure, si intravedono i segnali di una inversione di tendenza che mi pare degna di maggiore attenzione nel nostro Paese. Da qualche anno si moltiplicano gli esercizi di “storiografia filosofica” da parte di studiosi con impeccabili credenziali accademiche, che trovano utile distogliere lo sguardo dell’ossessione per la crescita, interrogandosi invece su ciò che accade quando l’impalcatura della società mostra segni di cedimento. Alludo a lavori come quelli di Niall Ferguson, Jim Morrison e Daron Acemoglu, Ian Morris, Francis Fukuyama. Storici, economisti, scienziati della politica che vedono nello studio del declino la chiave per trovare una risposta ai problemi attuali della “grande Repubblica” di cui parlava Gibbon.
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