«Quel poco che so della morale l’ho appreso sui campi di calcio e a teatro, le mie vere università». Pare lo abbia detto Albert Camus, ma a prescindere dall’autore l’aforisma è portatore di verità profonde. Lo hanno dimostrato questi Europei 2020, che la Uefa voleva itineranti per festeggiare i sessant’anni della manifestazione, ma che a causa della pandemia si sono svolti un anno più tardi, coinvolgendo undici Paesi di un continente desideroso di assembramento, unito dalla voglia di tornare a dividersi.
Per un mese intero le immagini e le atmosfere provenienti dagli stadi di Azerbaigian, Danimarca, Germania, Inghilterra, Italia, Olanda, Scozia, Spagna, Romania, Russia, Ungheria, hanno rappresentato un’Europa più estesa e complessa dell’attuale Unione europea, hanno raccontato le fratture del nostro spazio geografico, hanno dimostrato perché la «geopolitica del pallone» è divenuta un genere letterario serio e praticato. Il calcio delle nazionali intreccia da sempre relazioni politiche con gli Stati-nazione, il capitalismo, l’immaginario collettivo europeo, ma gli Euro2020 hanno miscelato questi tre ingredienti in un racconto quasi perfetto del nostro tempo. Proviamo a dipanarne le trame.
Calcio e nazione. Ce lo siamo dimenticati, ma a vincere i primi europei di calcio (luglio 1960) fu l’Unione Sovietica di Nikita Krusciov, che piegò ai supplementari la Jugoslavia del maresciallo Tito: due modelli «alternativi» di comunismo, ma soprattutto due grandi Paesi multietnici che oggi non esistono più. È indicativo che la relazione tra calcio e nazione venga spesso indagata a partire dalla dissoluzione della Jugoslavia. In un libro romantico uscito nel 2016, il giornalista Gigi Riva è arrivato a chiedersi cosa sarebbe accaduto se ai mondiali italiani il capitano jugoslavo Faruk Hadžibegić non avesse sbagliato il rigore decisivo contro l’Argentina di Maradona. Era il 30 giugno 1990, e l’eliminazione della nazionale jugoslava consumatasi al comunale di Firenze fece da sfondo alla deflagrazione di uno Stato che per spezzettarsi reclutò proprio nel calcio simboli e milizie, facendo nei suoi stadi le prove generali di una battaglia etnica, come avvenuto un mese prima tra tifosi e giocatori della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado.
Anche alla vigilia di Euro2020 gli organizzatori paventavano operazioni di nation-building calcistico. Si temevano, ad esempio, le gestualità della Turchia di Erdogan che durante le qualificazioni si era rivolta al pubblico parigino con il saluto militare; si temeva che il tabellone incrociasse Russia e Ucraina, la cui maglia ospitava sul petto una mappa comprensiva di Crimea, la penisola del Mar Nero invasa e poi annessa dalla Russia con un referendum molto contestato nel 2014 – nonché, va ricordato, due slogan terrificanti cuciti sul colletto («Gloria all’Ucraina» e «Gloria agli eroi»), entrambi riconducibili ai gruppi nazionalisti che negli anni Trenta finirono per collaborare con la Germania nazista. Alcuni osservatori avevano caricato di valori politici anche il «derby della Brexit» proposto dal gruppo D, tra l’Inghilterra di «God Save The Queen» e una Scozia in cui nazionalismo, indipendentismo ed europeismo sono tornati ad allinearsi. Particolare attenzione era poi rivolta alla Macedonia del Nord, un Paese che non si era mai qualificato alle fasi finali e che esordiva con un nuovo nome negoziato nel 2019 per porre fine al decennale contenzioso con la Grecia, per la quale la «Macedonia» continua ancora oggi a essere una regione del proprio territorio. Pochi in Italia hanno seguito la vicenda, ma su pressione dei tifosi la federazione macedone ha dovuto ripristinare in fretta e furia la vecchia maglia su cui si staglia il sole rosso di Verghina, un riferimento a un reperto archeologico rinvenuto negli anni Settanta nella Macedonia greca che entrambe le tradizioni nazionali riconducono alla dinastia dell’eroe conteso Alessandro Magno.
Se dinanzi a queste dispute «balcaniche» e «primordiali» abbiamo la tentazione di sorridere è soltanto perché abbiamo rimosso che l’azzurro della nostra maglia è il colore di Casa Savoia (peraltro sopravvissuto nel vessillo della presidenza della Repubblica). Come i testi e le musiche degli inni ripassati in queste settimane ci hanno ricordato, gli Stati-nazione sono un’invenzione dei Risorgimenti europei, e questi non sono ugualmente distanti nel tempo e nella memoria di tutti i Paesi. L’Ucraina in fin dei conti non ha inventato niente: durante le qualificazioni all’europeo del 2016 la partita Serbia-Albania fu sospesa a causa dell’atterraggio sul campo di una bandiera raffigurante la Grande Albania etnica, comprensiva del Kosovo e dei faccioni di Ismail Qemali e Isa Boletini, due patrioti fondatori dello Stato albanese. In quel caso la provocazione sui confini non fu organizzata né avvallata dalla federazione albanese, ma il punto da considerare è che i governi dei piccoli Paesi che popolano l’oltre-Adriatico si trovano a stretto contatto con il momento genetico della loro statualità: sono più bisognosi di nation-building e dunque più propensi a conferire alle sfide calcistiche un valore politico. Problema che in diverse forme può valere anche per le Repubbliche dell’Est Europa, che al fine di «ritrovarsi» sono costrette a risalire a prima dell’Unione Sovietica, e fatalmente a ripescare i nazionalismi e le tradizioni del primo Novecento.
Sebbene le insidie locali fossero note, la Uefa ha voluto girovagare per un continente post-pandemico, da Roma a Baku, da Bucarest a San Pietroburgo. Perché? La risposta è innanzitutto economica
Calcio e capitalismo. Sebbene le insidie locali fossero note, la Uefa ha voluto girovagare per un continente post-pandemico, da Roma a Baku, da Bucarest a San Pietroburgo. Perché? La risposta è innanzitutto economica. Come ben spiegato dal giornalista del «Sole 24 Ore» Marco Bellinazzo durante un dibattito organizzato dalla rivista «Le Grand Continent», il principale interesse dell’istituzione presieduta da Aleksander Čeferin – la Uefa in buona sostanza federa gli interessi della Premier League inglese, della Bundesliga tedesca, della Liga spagnola e della Serie A italiana – è di rimettere l’Europa, o meglio la Uefa stessa, «al centro del pianeta calcio». I vessilli locali, di club e nazionali, sventolano ancora fieri tra i mille campanili del vecchio continente, nel mentre però la Fifa, la Federazione internazionale di cui la Uefa stessa è membro, dopo i mondiali di Russia (2018) sta organizzando le prossime edizioni in Qatar (2022: saranno i primi mondiali a tenersi da novembre a dicembre) e in Canada-Usa-Messico (2026: saranno i primi mondiali a ospitare 48 squadre invece che 32, e a svolgersi spalmati su tre Paesi).
Il progetto, sventato solo pochi mesi fa, di una Superlega dei club europei più blasonati di fatto alternativo alla Champions League (la manifestazione più importante gestita dalla Uefa) ha reso evidente che cosa può accadere quando i bilanci scricchiolanti di società storiche con assetti proprietari sempre più internazionalizzati incontrano i finanziamenti di una banca americana, in un contesto tecnologico che spinge per un calcio-intrattenimento globale e digitale e a cui la pandemia ha tolto per mesi ogni addentellato fisico. L’insistenza con cui la Uefa ha scelto la formula itinerante e ha invitato i Paesi ospitanti a riempire gli stadi si spiega quindi anche con la necessità di uscire dal virtuale pandemico e di recuperare l’immagine di imprescindibile organizzatore delle passioni del popolo del calcio. Per convergenza di interessi populistici, il più disponibile alla mobilitazione di pubblico e alla recita della rinascita è stato il primo ministro ungherese Victor Orban, che ha concesso il 100% della Puskas Arena di Budapest di recente costruzione; ma persino il governo inglese, fiero di una campagna vaccinale gestita fuori dall’Ue e desideroso dell’appoggio Uefa in vista della sua candidatura per i mondiali del 2030, ha messo da parte tante perplessità sanitarie, concedendo una capienza di circa 60.000 spettatori già a partire dalle semifinali.
Negli ultimi mesi la Uefa è stata vissuta e raccontata alternativamente come un baluardo a difesa degli antichi «valori del calcio», come un organismo cosmopolitico che esporta il politicamente corretto dell’anglosfera, come un’istituzione ambigua, che mette l’arcobaleno nel logo ma strizza l’occhio a regimi e sentimenti nazionalistici; quando se guardata con realismo essa ci appare per quello che è: un attore di primo piano di una sport-industry che attraversa una fase epocale di cambiamento, e che dinanzi alla potenza economica di Usa, Russia, Cina e Paesi del Golfo – Bellinazzo l’ha definitiva la «Yalta del calcio» – cerca di difendere con ogni mezzo il suo posto nel mondo. Proprio come fatto per sventare il progetto della Superlega, quando Čeferin ha saputo giocare di sponda sia con diversi governi europei (Macron e Johnson innanzitutto) che con la ricchissima presidenza qatariota del Paris Saint-Germain, la quale tutto è fuorché locale.
Poi entra in gioco un immaginario che travalica gli immaginari nazionali e trascura le realtà economiche, perché ha a che fare con l’impareggiabile capacità del calcio di sincronizzare le esistenze di pubblici che non hanno nulla in comune
Calcio e immaginario europeo. E veniamo così alla dimensione europea di una manifestazione che nasce per essere tale. Qui entra in gioco un immaginario che travalica gli immaginari nazionali e trascura le realtà economiche, perché ha a che fare con l’impareggiabile capacità del calcio periodico e mediatizzato di sincronizzare le esistenze di pubblici che non hanno nulla in comune. Tra dieci anni solo una minoranza di appassionati italiani sarà in grado di discorrere del goal di Pessina contro l’Austria (senza il quale gli azzurri non avrebbero passato il turno), ma milioni di europei ricorderanno il riscaldamento di Italia-Spagna sulle note di «A far l’amore comincia tu», avranno presente che è proprio in quei giorni che se ne è andata Raffaella Carrà, così come è proprio in quei giorni che ho comprato la macchina, ho mangiato in quel posto, ho festeggiato la maturità, si discuteva di arcobaleni, ci siamo conosciuti e ci siamo innamorati.
Come ricordato a più riprese da Simone Conte nel delizioso Podcast Wembley gli europei e i mondiali di calcio costruiscono un lasso di tempo dentro al quale la vita di un atleta può cambiare per sempre, e per estensione la vita di chiunque si sincronizzi con lo spettacolo. Va inserito qui il dibattito, sconclusionato ma molto interessante, sui gesti simbolici come l’inginocchiamento in solidarietà alla lotta contro il razzismo. Un rito consolidato nel mondo anglosassone – tanto che anche chi è favorevole comincia a denunciare l’usura routinaria del gesto –, ma che una volta europeizzato dalle nazionali britanniche – con l’eccezione del Belgio, le nazionali continentali hanno preferito non aderire – ha scatenato discussioni a non finire non solo sul ruolo dello sport nella lotta a ogni discriminazione, ma sulla libertà di coscienza e il senso dei simboli in un mondo in cui, lo ha ricordato molto bene Daniele Rielli sul «Foglio», il marketing corporate e i social network trasformano i campioni in influencer standardizzati, privando di consapevolezza, gratuità e coraggio gesti il cui impatto solitamente è proporzionale al rischio personale che si corre. Giusto per fare un esempio, durante la presidenza Trump il primo atleta a rimanere seduto all’esecuzione dell’inno è stato il quarterback del San Francisco Colin Kaepernick, che di conseguenza non trova squadra dal 2017 – un’esclusione sportiva profondamente sbagliata, che però non gli ha impedito di diventare testimonial della Nike e protagonista di una serie Netflix, ed ecco di nuovo il corporate.
Un gesto poco mediato intendeva forse essere la richiesta del sindaco di Monaco Dieter Reiter di colorare d’arcobaleno l’Allianz Arena in occasione di Germania-Ungheria, per segnalare la protesta della sua città nei confronti dei recenti provvedimenti del parlamento ungherese volti a evitare la rappresentazione dell’omosessualità nei materiali scolastici e educativi (peraltro all’interno di una legge scritta per combattere la pedofilia). Il no dell’Uefa, che ha distinto tra la fascia arcobaleno del capitano tedesco Neuer (un gesto personale contro l’omofobia e dunque irreprensibile) e l’illuminazione dello stadio ospitante (una presa di posizione ambientale contro uno dei Paesi rappresentato in campo, e dunque non autorizzabile) è stato tempestivo nel rispetto dei regolamenti e scaltro nel lasciare comunque spazio al gesto simbolico, che messo in atto a margine della partita ha bucato l’immaginario europeo altrettanto o forse più che se fosse accaduto durante. Nonostante la sua squadra scintillante, talmente bella da impadronirsi dei cuori delle sue vittime – dei belgi in festa per il successo italiano ne vogliamo parlare? – la Federazione italiana ha per converso dimostrato tutta la sua impreparazione sotto al profilo comunicativo: facendosi cogliere di sorpresa da tematiche internazionali più che prevedibili, e poi fabbricando una contorta interpretazione «di squadra», per cui se si abbraccia un simbolo non lo si fa per il suo significato intrinseco (no al razzismo) ma in solidarietà con la battaglia dell’avversario (?!). Lato italiano è forse questa l’unica occasione persa dell’europeo, ma poco importa quando in finale sei l’unico Paese membro e dalla tua hai persino la presidente della Commissione europea, un’istituzione che per sua natura non fa mai simili professioni di fede nazionali.
La metafora del calcio è politica nella misura in cui accende un’immedesimazione che non conosce classi e culture, sintetizzando in novanta minuti di prato i dilemmi più seri delle vite umane
In conclusione. Gli europei di calcio sono un afflato europeo che sgorga da contrapposizioni nazionali che non sempre il fatto sportivo riesce a sublimare; la Uefa è un attore economico in difficoltà, che sceglie l’arcobaleno per ragioni di marketing, sa vietarlo per ragioni assennate e dimenticarselo per dissennate convenienze (come riempire lo stadio di Budapest); l’immaginario europeo è un mosaico confuso, diviso e interconnesso, in cui è sempre più difficile distinguere tra l’atleta e il tifoso, perché tra Instagram e Playstation il primo rifruisce sé stesso, in un perfetto cerchio chiaraferragnesco in cui il guardante e il guardato, il milionario e il nullatenente contribuiscono alla reciproca omologazione (è per questo che oggi l’inno non si canta ma si urla, perché i giocatori sono tifosi di loro stessi, non è «colpa» di Pertini, Ciampi o Napolitano). Eppure, persino nelle pieghe meno edificanti di queste contraddizioni, persino nei suoi esiti negativi e paradossali, questo periodico modo di incontrarsi non è mai vano, perché nel confronto dei comportamenti delle proprie squadre e dei propri campioni ognuno è portato a chiedersi, fanciullo o adulto, cosa farebbe lui in quella situazione, e in ultima istanza, chi è, come intende stare e spendersi nel guazzabuglio contemporaneo. La metafora del calcio è politica nella misura in cui accende un’immedesimazione che non conosce classi e culture, sintetizzando in novanta minuti di prato i dilemmi più seri delle vite umane: la fatica, la sofferenza e il sollievo di uscirne in qualche modo tutti insieme. Oltre a una nazionale giocosa come non mai e alla sua meritata coppa europea, è questa morale universale che conviene riportare per un po’ di tempo a Roma.
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