L'uragano Irma e gli allagamenti di Livorno e Roma hanno ridestato l’attenzione sul rapporto fra eventi del genere e il cambiamento climatico in corso. Per quanto la scienza non possa ancora istituire nessi causali diretti fra mutamento del clima e singoli eventi, molti scienziati vedono nell'aumento di precipitazioni intense e uragani una conseguenza certa del mutato assetto climatico – e d'altra parte le previsioni dell'Intergovernmental Panel on Climate Change hanno sempre menzionato eventi del genere fra gli effetti possibili dell'emissione di gas a effetto serra.

Il dibattito pubblico registra opposti atteggiamenti riguardo la gestione delle conseguenze di questi eventi: mentre nessuno si abbandona più all'idea che si tratti di fatalità imprevedibili, molti attribuiscono tutta la responsabilità dell'amministrazione dell'emergenza e della prevenzione alle istituzioni politiche e alla società nel suo complesso. E non manca chi rivanga la sapienza collettiva dei tempi andati – quando non si costruiva mai a valle, quando la pulizia delle caditoie, delle grondaie, dei tombini e degli argini era un rito collettivo; i tempi dei fiumi liberi, non interrati, né sotterranei. Naturalmente, quest'atteggiamento rischia una contraddizione. Se la situazione è eccezionale – se certi eventi, o la loro frequenza, sono frutto del cambiamento climatico – allora i rimedi del passato non saranno sufficienti, per quanto naturalmente la noncuranza faccia ancora peggio. In altri termini, se siamo nell'emergenza, il problema non dipende dal venir meno di certe procedure normali, semmai si aggrava e si rende più visibile. Se non siamo in emergenza, allora che sia mancata l'ordinaria manutenzione può essere grave, ma non è irreparabile, né giustifica allarmi.

Il presupposto assunto da molti è che la responsabilità per la gestione degli effetti del cambiamento climatico, così come i doveri di azioni preventive, siano totalmente collettivi e politici. Da un certo punto di vista, è innegabilmente così: prevenire i danni peggiori è operazione complessa, che ovviamente mette in campo leggi, dispositivi pubblici – in breve – istituzioni politiche. È una questione di strumenti: niente meglio dello sforzo concertato garantito dall'apparato delle istituzioni può garantire tempestività e risultati.

Tuttavia, spesso l'idea di una responsabilità delle istituzioni diventa un alibi, una premessa da cui si deducono conclusioni azzardate. Di frequente, l'idea è che, siccome la responsabilità è delle istituzioni, nessun individuo – a parte pubblici funzionari e politici – abbia responsabilità individuali. Questo è un facile alibi, e un'idea sbagliata. Come minimo, se anche la prevenzione e la gestione del cambiamento climatico fosse necessariamente e interamente un affare istituzionale, all'individuo rimarrebbe il dovere di far sì che le istituzioni funzionino a dovere. Se un sindaco manca di fare il proprio dovere di fronte a un'alluvione, non è detto che sia solo colpa sua, almeno da un punto di vista non giuridico. L'elettore dovrebbe chiedersi come mai la persona cui ha affidato la sua fiducia fallisca così. Non è detto che dovrebbe sentirsi complice: ma quest'idea che sia sempre e solo colpa della persona al comando va di pari passo con l'altra idea – egualmente errata e pericolosa – che, finito il momento elettorale, tutto si affidi a un unico individuo, o a un piccolo gruppo.

Inoltre, fenomeni come l'impatto umano sull'ambiente e il cambiamento climatico sono collettivi in un senso piuttosto specifico: essi sono spesso il prodotto dell'impatto cumulativo di azioni dei singoli. Il cambiamento climatico, la diminuzione degli spazi verdi, il consumo dissennato di suolo, le catene di trascuratezze e di piccoli illeciti che portano un terremoto trascurabile a diventare mortale, sono prodotto di comportamenti di individui singoli. È ovvio che questi comportamenti sarebbero stati impediti da leggi migliori, o dalle leggi esistenti applicate meglio, o semplicemente applicate con rigore. Quindi, è ovvio che ci siano colpe dei legislatori e dei pubblici funzionari. Ma se una persona commette un reato – per esempio, costruisce un edificio abusivo – e la fa franca, per colpa di funzionari non zelanti, ci sentiremmo di dire che è solo colpa di questi ultimi? È solo colpa del lassismo se poi sotto quegli edifici malcostruiti qualcuno muore?

Gli eventi climatici estremi che, secondo le previsioni più accreditate, saranno sempre più frequenti, sono l'effetto ultimo di comportamenti individuali, comportamenti apparentemente innocenti come usare la macchina o l'aereo. Si tratta di effetti indiretti, o più che altro di probabilità; forse, le azioni di un individuo sono cause né necessarie né sufficienti: è quando esse si cumulano con azioni simili degli altri che l'effetto segue. Ma questo non toglie la responsabilità individuale. Se ognuno di noi fa cadere una goccia minuscola di veleno nel corso di un fiume, quella goccia non ucciderà chi beve l'acqua del fiume a valle. Ma c'è una quantità di quelle gocce che basta a uccidere. Nessuno di noi ha messo da solo quella quantità nel fiume, ma un gruppo di noi l'ha fatto. È possibile che il gruppo sia responsabile senza che lo siano i suoi membri? Se non lo è, come credo, allora dovremmo sentirci responsabili di quel che accade intorno a noi, e occuparci più spesso dei nostri stili di vita individuali. Un'etica dell'emergenza è, anche e forse soprattutto, un'etica delle azioni individuali quotidiane. Il tombino otturato che ha contribuito all'allagamento è anche quello del nostro giardino.

 

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