Su questa rivista Elisabetta Lalumera ha invitato i filosofi a partecipare di più al dibattito pubblico, fornendo il contributo specifico che può derivare dalle strumentazioni concettuali tipiche delle discipline filosofiche. Il suo invito – che seguiva la lettera che alcuni filosofi avevano inviato ai giornali, criticando le posizioni di Giorgio Agamben – ha innescato una interessante discussione sulla natura della filosofia e sulla sua divulgazione, considerata su queste pagine per esempio nell’intervento di Simone Pollo. Qui non mi occuperò di questo, ma prenderò sul serio l’invito di Lalumera: proverò ad argomentare alcune tesi relative al passaporto vaccinale facendo uso degli strumenti concettuali resi disponibili dalla filosofia politica più recente. In questo modo metterò in luce ciò che un filosofo può fare con i propri strumenti di lavoro quando partecipa alla discussione pubblica, e ciò che può fare di specifico e di differente rispetto a chi discute questi temi provenendo da discipline e da orizzonti filosofici diversi da quello in cui è l’analisi concettuale a essere lo scopo e l’oggetto principale del lavoro intellettuale.
Le posizioni di chi, come Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, denuncia gli esiti autoritari dell’introduzione del passaporto vaccinale si possono criticare in molti modi. Si può criticare la nozione di «stato di eccezione», si può contestare la visione della scienza che viene presupposta da queste tesi, si può sostenere che quella che sembra una misura liberticida in realtà è perfettamente coerente con il principio del danno difeso da J.S. Mill in On Liberty (1859), un principio approvato dal senso comune di molte società civili di Paesi liberal-democratici e incarnato nel loro diritto. Ma ci sono alcuni errori più sottili di natura concettuale, che le posizioni di questo tipo celano e che può essere utile mettere in evidenza. Mi concentrerò su due punti: la tesi secondo cui il Green Pass sarebbe una misura discriminatoria, che crea indebitamente privilegiati (i vaccinati) e non privilegiati (i non vaccinati) e l’idea che esso restringa l’ampiezza delle libertà concesse ai cittadini.
Nella mia discussione darò molte cose per scontate, come è inevitabile. Darò per scontato che la diffusione del virus sia possibile e sia pericolosa per molti, darò per assodato che il lockdown, la quarantena e il passaporto vaccinale siano mezzi efficaci (se non i più efficaci) per impedire il contagio (o almeno che lo siano stanti le conoscenze attuali) e assumerò che si possano limitare certe libertà quando farlo serva a impedire danni molto probabili a terzi (cioè adotterò la visione della libertà individuale derivata dal principio del danno).
Quando si ha discriminazione? Per quanto sia proibita in molti documenti di diritto internazionale (per esempio il Patto internazionale sui diritti sociali e politici del 1966 o la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani del 1950), la discriminazione è una nozione difficile da definire. Tralasciando le molte controversie del dibattito, si può dire che si ha discriminazione quando una persona che avrebbe avuto diritto a un trattamento eguale viene trattata in maniera diseguale sulla base di caratteristiche che non giustificano il trattamento differenziale – nella maggior parte dei casi, sulla base della sua appartenenza a una categoria specifica – e quando il trattamento differente comporti uno svantaggio rilevante e non giustificato. La discriminazione, insomma, è un trattamento diseguale e svantaggioso imposto in maniera ingiustificata agli appartenenti a un certo gruppo, in virtù della loro appartenenza a tale categoria. C’è discriminazione, per esempio, quando si paga una donna meno di quanto si paghi un uomo che svolga la medesima prestazione. L’appartenenza al genere femminile non giustifica uno stipendio differente alle lavoratrici, perché il genere non influenza le prestazioni o il merito o il diritto a uno stipendio corrispondente alle prestazioni, o il diritto a uno stipendio che garantisca un tenore di vita minimo e così via. Non ogni discriminazione è ingiusta, però. Ci sono discriminazioni giustificate, e quindi non ingiuste: per esempio, se si sta in coda al supermercato e viene servito chi è arrivato prima, gli appartenenti al gruppo di chi è arrivato dopo sono trattati in maniera diseguale e subiscono un (lieve) svantaggio. Ma questo trattamento diseguale è giustificato dalla necessità di trovare un ordine non arbitrario tra i clienti.
La discriminazione, insomma, è un trattamento diseguale e svantaggioso imposto in maniera ingiustificata agli appartenenti a un certo gruppo, in virtù della loro appartenenza a tale categoria
Inoltre, la discriminazione è una nozione relativa, che ha a che fare con la diseguaglianza e il confronto fra differenti gruppi. Trattare tutti male non è una discriminazione, anche se è un danno. Imporre a tutti l’obbligo di vaccinarsi non costituirebbe una discriminazione, per quanto potrebbe essere visto come una restrizione dannosa della libertà. Quindi, nel caso del passaporto vaccinale, ci sarebbe discriminazione solo se appartenere al gruppo dei non vaccinati non giustificasse il trattamento diseguale, vale a dire se le maggiori restrizioni di libertà imposte a chi non si vaccina fossero un danno ingiustificato. Quindi, il problema si riduce al seguente: ci sono giustificazioni per le restrizioni di libertà imposte dal sistema del passaporto vaccinale e il danno che esse comportano? Se queste restrizioni sono giustificate (come io credo che siano, alla luce del principio del danno), allora non c’è discriminazione – o meglio non c’è discriminazione ingiusta. I no Pass compiono tre errori concettuali: non distinguono fra discriminazione giustificata e discriminazione ingiusta, non fanno differenza fra discriminazione ingiusta e restrizione illegittima della libertà e non capiscono che la prima dipende dalla seconda.
Come ho detto, assumo che le restrizioni della libertà derivanti dall’imposizione del Green Pass siano giustificabili perché necessarie a evitare danni a terzi. Ma questa giustificazione richiede di bilanciare e confrontare il valore di vari fattori: il danno a terzi costituito dalla maggiore possibilità di venire contagiati da varianti del virus, il danno sociale derivante dall’uso eccessivo di risorse sanitarie scarse (letti in terapia intensiva, per esempio), il danno individuale derivante dalla perdita di certe libertà – come la libertà di muoversi o la libertà di non correre i rischi legati all’inoculazione del vaccino. Alcuni dei detrattori del Green Pass suggeriscono che questi danni individuali siano maggiori dei danni a terzi e del danno sociale (altri, semplicemente, rifiutano qualsiasi violazione della libertà individuale, oppure sostengono, come Agamben, che queste restrizioni della libertà siano mezzi per ulteriori, e più ampie, limitazioni: qui non mi occupo di queste argomentazioni).
Per sostenere che la perdita di libertà derivante dal Green Pass non viene compensata dal guadagno in termini di danni a terzi e danni sociali bisognerebbe avere una visione chiara di quanto si perde vaccinandosi e delle perdite relative, cioè a confronto con altre situazioni: bisognerebbe stilare una misura della libertà (c’è una discussione fiorente su questo tra i filosofi politici e gli economisti: si veda se non altro I. Carter, La libertà eguale, Feltrinelli, 2005, cui m’ispiro qui). Una misurazione approssimativa potrebbe essere la seguente. Il passaporto vaccinale consente i seguenti insiemi di azioni: a) vaccinarsi e muoversi in tutti i luoghi pubblici e b) non vaccinarsi e muoversi solo in luoghi privati o nei pochi luoghi pubblici dove non si richieda il Green Pass; non è possibile c) non vaccinarsi e muoversi in tutti i luoghi pubblici. (Nella misurazione della libertà si dovrebbe calcolare anche il peso delle punizioni derivanti dalla trasgressione della regola – ma nel caso dell’obbligo di Green Pass, almeno di fatto, la pena è per l’appunto non poter svolgere certe azioni, per esempio, non poter andare al lavoro, o dover lavorare da casa: quindi per semplicità possiamo limitarci a considerare gli insiemi di azioni possibili o meno nel regime basato sul Green Pass.)
Per sostenere che la perdita di libertà derivante dal Green Pass non viene compensata dal guadagno in termini di danni a terzi e danni sociali, bisognerebbe avere una visione chiara di quanto si perde vaccinandosi
La quarantena e il lockdown sono ovviamente molto più costosi in termini di libertà: non sono permesse le azioni consentite dal passaporto vaccinale (non ci si può muovere affatto) e c’è un sistema di sanzioni, generalmente, che impone ai trasgressori dei costi ulteriori, rispetto all’impedimento di svolgere certe azioni – costi come multe o altre pene. Rispetto al lockdown, dunque, il passaporto vaccinale dà molta più libertà.
L’obbligo vaccinale, d’altra parte, consentirebbe solo l’azione a), cioè vaccinarsi e muoversi (non sono permesse né b), non vaccinarsi e non muoversi, né c), non vaccinarsi e muoversi): in questo senso è una cospicua perdita di libertà rispetto al passaporto vaccinale e un guadagno rispetto al lockdown. Che dire dell’assenza assoluta di restrizioni (nessun vaccino, nessun lockdown)? Solo apparentemente si tratta di una situazione di maggiore libertà. In condizioni di contagio diffuso, c’è un rischio per tutti, per quanto con probabilità differenti a seconda delle categorie, di ammalarsi e la malattia implica ovviamente non poter fare molte azioni. La pandemia incontrollata ha un costo alto in termini di libertà (o almeno in termini di probabilità di perdere libertà). Non è affatto detto che con una situazione di pandemia senza distanziamento sociale, senza protezioni, senza lockdown si sarebbe di fatto liberi di muoversi. Si potrebbe dire che il Green Pass (come il lockdown e l’obbligo vaccinale) comportano perdite sicure, mentre la pandemia solo perdite probabili. (E si potrebbe dire che l’ostacolo costituito dalla malattia non è analogo a quello costituito da una norma legislativa: di questo non mi occupo qui).
Ma è plausibile che, con un contagio generalizzato e una mutazione continua del virus, ben presto molti di quelli che non si ammalavano si ammalerebbero e le probabilità di perdere molte libertà aumenterebbero molto, almeno sino al raggiungimento dell’immunità di gregge (ammettendo che questa sia possibile con un virus così capace di mutare come quello di cui parliamo). Quindi, il passaporto vaccinale non è affatto una restrizione cospicua della libertà: paradossalmente, è forse la situazione che lascia maggiori libertà. I no Pass compiono anche un errore di calcolo, dunque, derivante da un errore concettuale, che consiste nel non vedere che la misura della libertà corrisponde al numero di azioni compossibili permesse e nel non paragonare il Green Pass alle alternative possibili.
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