A qualche giorno dalla sua diffusione, il documento programmatico che ormai tutti si sono rassegnati a chiamare «agenda Monti» non ha suscitato un entusiasmo paragonabile all’attesa che c’era nelle settimane precedenti. La pagina, creata appositamente su internet, ha un traffico tutto sommato modesto, di gran lunga inferiore ad altri siti del genere, o a quelli di alcune riviste o gruppi di discussione che si occupano di politica. In parte, la spiegazione di questa freddezza si potrebbe trovare, forse, nello stile del documento: una serie di proposte generali, alcune delle quali largamente condivisibili, che non sono tenute insieme da una visione politica complessiva, da una chiara idea sul futuro del Paese. Probabilmente, la prima iniziativa del Monti politico subisce anche le conseguenze del modo in cui il presidente del Consiglio dimissionario ha presentato il proprio profilo nel corso dell’anno che si conclude oggi. L’aver sottolineato continuamente il proprio essere altro rispetto ai partiti, da cui però dipendeva per l’approvazione dei provvedimenti in Parlamento, l’uso frequente di metafore – «la medicina è amara, ma serve per curare il Paese» – studiate per suggerire un agire dettato dalla necessità e da un sapere scientifico, e non da riconoscibili opzioni di principio, non era fatto per far presa sull’immaginario del pubblico.
In fin dei conti, un malato non sceglie come leader il proprio medico. Semmai lo ascolta, ne accetta i consigli, ne rispetta le prescrizioni con diligenza e un pizzico di rassegnazione, ma tutto ciò avviene in vista di uno scopo preciso: la guarigione. Conseguita la quale, non vede l’ora di riprendere a vivere serenamente lasciandosi alle spalle il medico e il ricordo del malanno. Per trasformarsi da medico al capezzale del malato a leader politico Monti avrebbe bisogno di qualcosa di più evocativo e motivante di un’agenda, di uscire dall’ambiguità che discende dal rifiuto di richiamarsi esplicitamente a una alle tradizioni politiche che ancora oggi sono dominanti in buona parte dei Paesi occidentali, e che si possono per comodità rappresentare ricorrendo alla niente affatto superata opposizione tra destra e sinistra. Certo, per farlo, dovrebbe rinunciare a quello che fino a oggi è stato per lui un vantaggio, ovvero difendere le proprie scelte ricorrendo all’argomento della necessità, ma la perdita sarebbe ampiamente compensata dalla possibilità di dire fino in fondo quel che pensa e di farlo con tutta la convinzione di cui è capace.
D’altro canto, non è difficile ricostruire alcuni frammenti di visione politica spigolando tra gli scritti e le interviste rilasciate da Monti nel corso dell’ultimo ventennio. Idee che sono in linea con il liberalismo conservatore con venature solidariste di una parte importante del Partito popolare europeo. Così, ad esempio, quando Monti afferma che «[…] al mercato e al sistema dei prezzi dobbiamo chiedere l’efficienza; per la ridistribuzione e la solidarietà va usato il sistema fiscale»; oppure che «[u]n certo carico fiscale e una certa progressività sono giustificati e accettabili, se sono il costo da pagare per aver reso più libero e più efficiente il mercato», non è difficile riconoscere il profilo di quella egli ama chiamare «economia sociale di mercato». Una posizione che Monti stesso difende scrivendo che «data la storia e la cultura dei Paesi europei, dato il valore che si assegna alla protezione dei più deboli, e dato che si è partiti da posizioni ben lontane dal liberismo, è importante che una certa dose di socialità, ritenuta necessaria, sia collocata là dove disturba meno in mercato. Ciò dovrebbe permettere di non intralciare troppo l’efficienza dell’economia e di non generare, d’altra parte, riflussi contro un mercato visto come antagonista della socialità».
Si tratta di un’interpretazione del liberalismo cui Friedrich von Hayek guardava con qualche simpatia. Ben diversa dal liberalismo egualitario di John Rawls che assegna un ruolo più ampio al «settore distributivo» del governo. Sotto questo profilo, se Monti sciogliesse gli indugi, facendo outing dal punto di vista politico, egli darebbe un contributo molto più efficace di qualsiasi agenda al rinnovamento della cultura pubblica del nostro Paese.
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