Le prossime elezioni regionali in Emilia-Romagna assumono, per unanime convinzione degli osservatori, il valore di un test emblematico sia per le trasformazioni in atto nella periferia italiana, sia per la tenuta del governo. L’Emilia-Romagna, infatti, appartiene, con la Toscana e l’Umbria, a quel blocco di regioni italiane che, dal 1970, sono state guidate senza soluzione di continuità da esponenti della sinistra e poi del centrosinistra, finendo per costituire il cuore della subcultura politica «rossa». Alle regioni «rosse» sono state in genere riconosciute una capacità amministrativa di buona qualità, una marcata tendenza verso politiche solidaristiche e inclusive a livello territoriale, una gestione dei conflitti mediata con successo dai corpi intermedi.
I detrattori hanno messo in rilievo i risvolti potenzialmente consociativi di questo «modello cooperativo», l’accentuata presenza del pubblico, talvolta in forme burocraticamente invadenti, e infine la compressione delle energie individuali o collettive disomogenee rispetto alla selezione dell’élite filtrata dalla cooptazione consociativa. Come altrove in Italia, la nascita del Pd ha propiziato l’avvicinamento e quindi la saldatura di due sfere di rappresentanza degli interessi un tempo diversificate: quella dell’antica «sinistra classe» (mondo cooperativo, associazioni artigiane, strutture assicurative e finanziarie, sindacato seppure in misura progressivamente meno marcata) e quella tradizionalmente democristiana (fondazioni bancarie, associazionismo economico, camere di commercio, volontariato cattolico organizzato).
In Emilia-Romagna il centrosinistra è in primo luogo il nodo principale di questa fitta trama di interessi, mediata da un gruppo dirigente sempre meno ideologico, la cui forza consiste in particolare nella capacità di costruire una rete relazionale e narrativa rassicurante, all’interno della quale ogni attore identificato come significativo può trovare ascolto e risposte. L’abitudine alla negoziazione, affinata nel tempo, ha costituito la premessa psicologica dell’allargamento del campo rappresentato: un allargamento non più derivato dall’ambizione organicistica di sperimentare una «nuova società», quanto piuttosto da una torsione in senso pragmatico dell’élite di governo, detentrice di ben precise abilità e di un consolidato capitale reputazionale. Il mestiere del politico/amministratore e del politico/burocrate, non a caso, è oggi caratterizzato dalla maggior frequenza, rispetto a un tempo, di carriere miste: da politico- funzionariali a burocratico-amministrative, dotate a livello apicale di maggior legittimazione e di stabilità economica rispetto alla precarietà del cursus honorum del dirigente di partito «classico» nel XXI secolo.
La Regione nasce, com’è noto, da un contenitore politico inventato nel 1859: l’Emilia costituì lo strumento ideato da Luigi Carlo Farini per portare i ducati emiliani e le legazioni pontificie nello Stato unitario. Le differenze erano, e sono ancora, molte: la natura di «piccole capitali» di Modena e Parma; la maggiore gravitazione dei contesti urbani orientali su Bologna; la presenza di aree di confine marcate da spinte centrifughe (su tutte il Piacentino, di fatto inserito nell’hinterland milanese). L’indice sarebbe lungo. Di questo polimorfismo, incardinato in una tradizione municipalista molto forte, l’istituzione Regione ha proposto diverse letture. In una prima fase, quella aurorale degli anni Settanta, l’idea prevalente era ispirata dalla programmazione e l’intento cui si dedicarono gli amministratori fu l’analisi e la descrizione dello spazio comune ai fini della progettazione di una politica di sviluppo. Non è un caso che l’Emilia-Romagna sia l’unica realtà regionale a evocare, nel proprio logo, la geografia: un triangolo verde iscritto fra il Po, l’Adriatico e gli Appennini.
Venne poi la stagione delle funzioni delegate e la costruzione del Ssn: il superamento dei comitati di gestione locali, economicamente disastrosi, e l’aziendalizzazione, negli anni Novanta, ha rappresentato una straordinaria occasione di concentrazione di risorse e di potere. Più complicato e meno lineare il sostegno a politiche di sviluppo in senso industriale, al di là dell’enfasi posta sul tradizionale «modello emiliano», ovvero sulla cooperazione fra attori territoriali istituzionali, politici, sociali ed economici. I tentativi di disegnare specifiche vocazioni da parte della Regione si sono sempre infranti sulla barriera alzata dai municipalismi, tant’è che la prassi del policentrismo ha finito per essere eretta a sistema: negoziazioni a due fra amministrazione regionale e centri urbani maggiori, sulla base dei rapporti di forza – politici ed economici – esistenti. La legge sulla riconfigurazione amministrativa post-provinciale, votata dall’assemblea regionale nel luglio 2015 (l. 13), pur ispirata da una ragionevole prospettiva di riordino, è rimasta – certo anche per il concomitante fallimento del progetto di revisione costituzionale – in sostanza lettera morta.
I rapporti di forza sono di vario tipo: demografici, politici, economici. Sotto il profilo demografico, la maggior parte della popolazione agglomerata dell’Emilia-Romagna risiede lungo l’asse pedemontano, fra Bologna e Parma, dove si concentra anche il motore intellettuale del territorio, con tre atenei su quattro. L’Appennino emiliano occidentale è soggetto a un grave dissesto idrogeologico ed è scarsamente abitato; se la cavano meglio le comunità collinari e montane centro-orientali. Gli insediamenti al di fuori di quest’area core sono maggiormente toccati da fenomeni di marginalità e di declino delle attività produttive, talvolta anche in pianura. Tiene la fascia urbanizzata adriatica.
Per decenni, il nucleo propulsivo emiliano si è anche identificato con l’egemonia dei partiti di sinistra, dal Pci in avanti: queste forze hanno espresso la maggior parte degli amministratori e dell’élite burocratica e sono tuttora complessivamente maggioritarie fra Bologna e Reggio Emilia. La capacità d’intermediare le realtà produttive ha costituito, senza dubbio, un fattore decisivo di longevità per questo gruppo, in particolare negli ultimi anni post-crisi, quando le province centrali dell’Emilia-Romagna si sono trovate inserite nel nuovo «triangolo industriale» della Padania centroorientale. L’esperienza della ricostruzione seguita al terremoto del 2012, per lo più caratterizzata da rapidità di intervento ed efficienza, testimonia la vitalità di uno stile di governo ben collaudato; così come, per altro verso, l’abilità nell’intercettare propensioni all’investimento da parte di imprese internazionali in cerca di nuovi insediamenti.
La cultura dello sviluppo, eredità di un industrialismo di stampo tradizionale, è andata evolvendo attraverso il riconoscimento sociale dell’impresa quale fulcro di relazioni territoriali di nuovo conio: un’impostazione molto lontana dalle basi di partenza tardo-novecentesche e, a tutti gli effetti, liberale. L’amministrazione regionale guidata da Stefano Bonaccini ha rinnovato sensibilmente il profilo anche di altre politiche pubbliche, assumendo posizioni diverse dalla consuetudine: si ricorda, in questa sede, la legge urbanistica del dicembre 2017 (l. 24) che, per quanto ritenuta da vari osservatori troppo timida ed esitante, parte tuttavia dal presupposto di contenere il consumo di suolo (un’affermazione che, fino a pochi anni fa, sarebbe stata considerata a livello di élite amministrava emiliano-romagnola quasi provocatoria); così come, d’altro canto, l’attenzione, per lo meno a livello di discorso pubblico, riservata ai temi ambientali e della cosiddetta «economia circolare», invisi alle componenti sviluppiste della sua coalizione. Vero è però che, in questo campo delicato, l’influenza delle potenti multiutility – componenti sempre più autonome del capitalismo municipale, non solo in Emilia-Romagna – ha poi finito per plasmare l’indirizzo politico della maggioranza, senza lasciare molti margini di agibilità politica alle voci alternative.
[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 5/19, pp. 716-723, è acquistabile qui]
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