Nei giorni scorsi è stato reso pubblico il video della cerimonia di consegna dei diplomi alla Scuola Normale di Pisa. Il 9 luglio tre neodiplomate, a nome delle compagne e dei compagni della Classe di Lettere, hanno tenuto un discorso fortemente critico nei confronti della Scuola e, più in generale, del sistema universitario. La loro posizione potrà sembrare controversa ad alcuni, ma ci sembra tocchi alcuni punti cruciali che andrebbero discussi, anziché nascosti. Per questo vi proponiamo il testo che abbiamo chiesto loro di preparare a partire dal loro intervento, con l'auspicio che altri possano poi riprenderne e discuterne i passaggi più critici.
Dopo un confronto tra noi durato mesi, se non anni, ci è sembrato necessario provare a riassumere le contraddizioni che proviamo nel pensare a dove siamo ora, a come stiamo ora. Riconosciamo anzitutto che dobbiamo gran parte di ciò che abbiamo raggiunto agli anni trascorsi alla Scuola. Senza coloro che abbiamo conosciuto, senza ciò che ci è stato insegnato e ciò che abbiamo imparato, certamente oggi saremmo persone molto diverse. Per questo vogliamo esprimere con chiarezza la nostra profonda gratitudine non solo nei confronti del corpo docente, ma anche, per la presenza costante e per l’aiuto concreto, verso il personale tecnico amministrativo, le addette e agli addetti alle aule e alla portineria, il personale dei collegi, le lavoratrici e i lavoratori di mensa e biblioteca.
Proprio perché la Scuola ha significato così tanto per noi, ci sembrerebbe sbagliato e ipocrita vivere questo momento di celebrazione, alla fine del nostro percorso di studi, senza condividere pubblicamente alcune preoccupazioni. Per farlo, siamo convinti che sia necessario cominciare descrivendo il contesto lavorativo, sociale e culturale in cui gran parte di noi è ormai inserita. Un contesto che negli ultimi anni è stato investito da cambiamenti profondi: cambiamenti, crediamo, che la Scuola Normale non ha semplicemente subito, ma ha contribuito a legittimare.
In questa sede, in termini necessariamente sintetici e generali, ci riferiamo al processo di trasformazione dell’università in senso neoliberale. Un’espressione con la quale intendiamo quel tipo di università-azienda in cui l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto; in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi; in cui lo sfruttamento della forza-lavoro si esprime attraverso la precarizzazione sistemica e la deregolamentazione crescente delle condizioni contrattuali delle lavoratrici e dei lavoratori esternalizzati; in cui le disuguaglianze sono inasprite da un sistema concorrenziale che premia i più forti e punisce i più deboli, aumentando i divari sociali e territoriali.
Questa, che è una tendenza internazionale, si declina in Italia in maniera particolarmente violenta, accompagnandosi al drastico ridimensionamento dell’università pubblica. L’Italia spende lo 0,3% del Pil nell’istruzione terziaria, contro lo 0,7 della media europea. Nell’ultimo decennio la spesa pubblica per la ricerca è stata tagliata di un quinto. Nel frattempo, le iscrizioni alle università sono scese del 9,6% e nel 2020 la popolazione tra i 25 e i 34 anni con istruzione terziaria in Italia si aggirava intorno al 29%, contro il 41% della media europea.
L’Italia spende lo 0,3% del Pil nell’istruzione terziaria, contro lo 0,7 della media europea. Nell’ultimo decennio la spesa pubblica per la ricerca è stata tagliata di un quinto. Nel frattempo, le iscrizioni alle università sono scese del 9,6%
Non meno significativi sono i dati sul personale: dal 2007 al 2018 le borse di dottorato sono diminuite del 43% (56% al Sud); tra il 2008 e il 2020 nelle università statali docenti e ricercatori sono diminuiti del 14% e le recenti e parziali stabilizzazioni non sono che una goccia nell’oceano, dato che ben il 91% degli assegnisti di ricerca si vedrà escluso dall’università italiana; il personale a tempo determinato è ormai ben maggiore di quello a tempo indeterminato (e nel primo le donne sono sovrarappresentate).
Le disuguaglianze sono dunque stridenti: il divario di genere, il divario territoriale tra Nord e Sud, e non da ultimo il divario tra i poli di eccellenza ultra-finanziati e la gran parte degli atenei, determinato dalla diminuzione dei fondi strutturali e dall’aumento delle quote premiali. Lo abbiamo visto con l’istituzione dei dipartimenti di eccellenza, che in questo quadro non può che apparire odiosa e insensata. Faccia riflettere un ultimo dato: mentre docenti e ricercatori diminuivano nel complesso degli atenei italiani, questi aumentavano del 40% nelle Scuole superiori come la Normale.
In questo contesto, i cosiddetti «eccellenti», tra i quali siamo certamente anche noi, sono senza dubbio i «fortunati». Ma, occorre domandarsi, di quale eccellenza si può trattare in mezzo a queste macerie? Quale valore ha la retorica dell’eccellenza se, fuori da questa sorta di «cattedrale nel deserto», ci aspetta il contesto desolante che abbiamo descritto? La stessa retorica che anche la Scuola Normale promuove ha legittimato il taglio delle risorse, incoraggiando la creazione di piccoli poli iper-finanziati.
Di fronte a tutto questo, ci accompagna, deludendoci, il silenzio della maggioranza del corpo docente, riportando all’attenzione il tema del ruolo pubblico di chi insegna e fa ricerca. Nelle università italiane l’impegno civico è infatti passato in secondo piano rispetto alla produzione scientifica. Non solo: schierarsi apertamente a favore o contro precise scelte politiche è ormai da tempo considerato non un valore aggiunto, bensì una macchia di cui l’accademico di oggi non deve in alcun modo sporcarsi. Una disabitudine all’impegno che sta via via diventando egemone e pericolosa: mentre noi studenti esitiamo a esporci, e guardiamo con pessimismo all’esito di ogni nostra eventuale battaglia, ci chiediamo invece quanta forza in più avrebbe la nostra voce se fosse sostenuta da quella delle nostre e dei nostri docenti.
Nelle università italiane l’impegno civico è passato in secondo piano rispetto alla produzione scientifica. Schierarsi apertamente a favore o contro precise scelte politiche è ormai da tempo considerato non un valore aggiunto, bensì una macchia di cui l’accademico di oggi non deve in alcun modo sporcarsi
Chi ci dovrebbe guidare nel nostro percorso formativo, invece, spinge alla competitività, alla produttività, al publish or perish, riproducendo attivamente alcune delle dinamiche che abbiamo cercato di riepilogare, seppure per sommi capi. Se l’obiettivo della Scuola è abituarci quanto prima ad accettare acriticamente tale sistema, crediamo che si tratti di un obiettivo perverso.
La retorica del merito e del talento si rivela in molti casi nient’altro che un alibi per generare una competizione malsana. Alla Normale c’è un modo di dire molto popolare: si è buttati subito in acqua, e così, pur di non affogare, si impara a nuotare in fretta. Tuttavia, oggi a diplomarsi con noi non ci sono tutte le persone con cui abbiamo condiviso il nostro percorso: la loro assenza ci pesa e crediamo che sia una sconfitta per la Scuola. Se una parte di noi ha imparato a nuotare, lo ha fatto a prezzo di anni di malessere: non è grazie a questo principio ma nonostante questo principio che siamo arrivati qui.
Molti di noi, tanto dentro la Normale quanto fuori, convivono con la sindrome dell’impostore, senza mai sentirsi all’altezza della propria posizione. Una simile pressione sociale non è solo causa di un generico malessere, ma rappresenta una stortura sistemica grave che può avere conseguenze estreme sulla salute fisica e psicologica: il nostro malessere è intrinsecamente legato a un modello – quello dell’accademia neoliberale – che le scuole di eccellenza non fanno niente per contrastare, ma invece tutto per confermare e rafforzare.
Inoltre, la retorica dell’eccellenza ha ripercussioni serie anche sul piano della didattica. Ci sembra prioritario spostare l’attenzione dall’eccellenza della selezione alla qualità della formazione. Vorremmo che i corsi fossero improntati a un vero spirito di cooperazione tra chi insegna e chi impara; all’uso non esclusivo della didattica frontale dovrebbe associarsi un ripensamento del momento del seminario in senso più formativo e meno performativo; dovrebbe essere incoraggiato il lavoro a più mani, a mostrare quanto le competenze individuali risultino potenziate in un progetto collettivo.
La scelta di far leggere queste parole a tre nostre compagne è un gesto semplice, che vuole lanciare un messaggio chiaro contro l’individualismo promosso dall’accademia neoliberale, ma anche contro un altro enorme problema sistemico. Vorremmo infatti che un istituto di formazione superiore, come la Scuola Normale – in quanto istituzione, corpo docente, comunità – prestasse più attenzione alla disparità tra uomini e donne nell’accesso alla carriera universitaria. Stando agli ultimi dati, borse di dottorato e assegni di ricerca sono più o meno equamente distribuiti tra uomini e donne. Così non è per le cattedre di seconda fascia (ricoperte da donne nel 38% dei casi) e di prima (nel 24% dei casi). Nel caso della Scuola, su 13 membri del Senato accademico solo 3 sono donne; di 10 professori ordinari nella classe di Lettere, 9 sono uomini. Oggi, su 26 diplomati, 8 sono donne. Il divario di genere, molto più marcato nelle università del Sud, è un risultato che nasce da evidenti ragioni storiche, ma contro il quale non si combatte abbastanza. I ritmi della ricerca odierna, quelli per i quali il precariato si vince solo dopo i quarant’anni di età e avendo dedicato i precedenti venti alla sola ricerca, sono incompatibili con la volontà, per esempio, di avere una famiglia, e sono incompatibili con il fatto che il lavoro di cura nel nostro Paese ricade quasi interamente sulle donne.
Per questo motivo, chiediamo a tutti di riflettere davanti all’evidenza dei numeri e di prestare sempre attenzione quando di fronte a voi c’è una donna. Vi chiediamo di pensare due volte quando una ricercatrice è incinta, quando una professoressa è madre, o quando un’allieva rimane ferita davanti a un commento che a voi è parso innocente: si tratta magari di una reazione a un cliché ripetuto da anni, introiettato e ritenuto innocuo, ma che tale non è. Perché se è vero che siamo privilegiati, a maggior ragione dovremmo essere noi a sfruttare questo privilegio per informarci, per formarci, per sensibilizzarci e soprattutto per cambiare le cose.
Sappiamo che le parole che abbiamo pronunciato sono dure, ma dare a un momento di celebrazione la giusta serietà significa anche e soprattutto esercitare con consapevolezza lo spirito di analisi e critica che in queste aule ci è stato trasmesso. Parlare con chiarezza ed esprimere le nostre preoccupazioni all’istituzione che ci ha formato ci sembra la via per restituire agli anni passati alla Scuola tutta la complessità che la nostra esperienza di allieve e di allievi merita. Dopo anni di confronto, nessuno di noi si riconosce nella retorica dell’eccellenza su cui la Scuola poggia. E questo non solo perché la consideriamo parte integrante di un modello, sistemico e locale, insostenibile, ma anche e soprattutto perché la troviamo incompatibile con l’incompletezza e la fallibilità di ognuno di noi.
[Questo testo, a firma collettiva, è stato scritto da Mattia Bellino Borgese, Paolo Bozzi, Alessandro Brizzi, Michele Gammella, Virginia Grossi, Niccolò Izzi, Virginia Magnaghi, Lorenzo Maselli, Francesco Molinarolo, Cosimo Paravano, Irene Saggese, Valeria Spacciante, Eleonora Tioli e Giovanni Tonolo.]
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