Nel bel saggio di Galli della Loggia sulle date capitali della vicenda italiana del Novecento, fresco di stampa, si sottolinea come, con quelle giornate, si aprisse una fase nuova della storia politica del Paese. C’è tuttavia, a mio avviso, un altro aspetto interessante, ed è l’elemento di sorpresa dovuta al coagulo di molti elementi che, fino a quel giorno, non avevano composto un quadro plausibile e unitario.La sorpresa non sta tanto nel verificarsi dell’evento, quanto nel suo prodursi come effetto della capacità di “risolvere” un problema che altri non avevano visto o avevano impostato male. Quella che allora si presentava come una re-interpretazione è poi diventata un modo ovvio di vedere retrospettivamente le cose. Se ci mettiamo dal punto di vista degli attori coinvolti nella questione cristallizzatasi quel giorno, facendo finta di ignorare quel che sappiamo oggi, possiamo apprezzare la capacità di rottura e insieme la lungimiranza dei protagonisti.
Fino al 1947, e per molti anche dopo, la Resistenza viene categorizzata per lo più come una lotta contro l’occupante tedesco, una sorta di liberazione nazionale, e non come una guerra civile. De Gasperi invece rompe questo schema e scioglie l’unità antifascista. Aveva capito che tale unità era ambigua e che sarebbe divenuta sempre più incompatibile con l’appartenenza allo schieramento occidentale. Le elezioni del 18 aprile chiesero di pronunciarsi su tale scelta.
Solo a elezioni avvenute, il 26 aprile, Giancarlo Pajetta, nel commentare il risultato, per lui sorprendente, si accorge di come De Gasperi avesse ristrutturato la scelta degli italiani. Egli osserva che si era trattato di un plebiscito intorno al quesito: “Volete il comunismo oppure no”. Pajetta si da anche la risposta: “È evidente che posta su questo terreno la questione, noi non potremmo mai avere una maggioranza legale”.
Se ne evince che i social-comunisti non avevano capito che la questione era stata impostata, e colta dalla maggioranza degli italiani, proprio in questi termini. Di qui il forte afflusso di votanti, il 92%, di cui solo un terzo votò per il Fronte Popolare.
Quel che succede il 27 marzo 1994 è più recente, ed è quindi difficile avere un atteggiamento di analisi distaccato. A sentire Galli della Loggia, nell’Europa di oggi, è più facile parlare di Hitler che di Berlusconi. Eppure, quando incontro amici stranieri, spesso psicologi, mi si domanda come mai la maggioranza relativa degli italiani, un Paese democratico, abbia scelto nel 1994 di venire governata dalle coalizioni capeggiate da Berlusconi. Si badi bene, non come mai governa oggi (media, debolezza opposizione e quant’altro si desideri), ma come mai abbia vinto allora. Se leggessero la lucida analisi di Galli della Loggia capirebbero le principali ragioni per cui questo è successo. E tuttavia i para-occhi, o, se vogliamo, i pre-giudizi, impedirono allora di usare le categorie giuste per leggere un episodio che, a molti, appare ancor oggi misterioso e, comunque, sorprendente. Per solito ciò che sorprende è quel che, nel momento in cui si attua, noi non riusciamo immediatamente a spiegare. E tuttavia, dato che sono psicologi, dovrebbero avere, nella loro cassetta degli attrezzi, gli strumenti per capire quello che è successo.
Si è trattato di una repentina ristrutturazione di un problema, un cambiamento di prospettiva che era “richiesto” da una situazione nel frattempo cambiata. Insomma, quello che gli storici della scienza chiamano un cambio di paradigma, all’inizio corroborato da poche evidenze e, quindi, difficile da cogliere.
Dopo la caduta del muro di Berlino, Berlusconi si accorse che ormai non c’erano più le condizioni per la pregiudiziale “antifascista” e che si poteva allestire un’inedita coalizione con la Lega e l’Msi, cioè con il 14% dell’elettorato del 1992. Prescindendo dagli aspetti folkloristici, Berlusconi coglie per primo un’esigenza “sistemica”, e cioè che il bipolarismo “richiedeva” quella soluzione. Insomma ristrutturò il problema, come aveva fatto De Gasperi.
Questo non venne fatto dai Popolari, eredi della Dc e di una lunga e nobile tradizione che li “rallentava” cognitivamente, benché sarebbe stato in teoria facile imitare l’esempio dei democristiani tedeschi, che “coprivano” l’intera area avversa alla sinistra. Oggi sembra un’operazione ovvia, la pre-condizione per quel bipolarismo che si è gradualmente affermato. Non lo era allora.
Ricordo che seguii con attenzione l’ultima sfida televisiva tra Berlusconi e Occhetto, che credeva di aver costruito una “favolosa macchina da guerra”. Era per l’appunto favolosa, nel senso di fantasiosa. Durante lo scontro televisivo finale, parlò per quasi tutto il tempo male di Berlusconi, mentre Berlusconi parlò bene di se stesso, cosa che non gli riesce ardua. Occhetto non si accorse di fare anche lui campagna per Berlusconi.
Spesso deve passare una generazione perché un nuovo schema cognitivo sia accettato da tutti, diventi scontato. E così, dopo il 1948, i comunisti continuarono a perdere parlando male dei democristiani e la sinistra loro erede, pur avendo assorbito parte dei cattolici, cadde nella stessa trappola nel 2001 e nel 2008. Solo Prodi riuscì a battere questo schema, appunto perché la sua figura non permetteva a Berlusconi di avere l’alleanza implicita del nemico.
Come psicologo, la mia morale di questa storia è che le persone non ragionano in politica con una testa diversa di quella che permette nella vita quotidiana di scegliere, dopo aver risolto, ciascuno a modo suo, i dilemmi che si presentano. E alcuni sono più bravi di altri nel vedere il “vero” problema che hanno davanti e, quindi nel risolverlo. In politica, come altrove, chi fa così, vince.