Fatto numero 1: negli ultimi anni il Mezzogiorno è stato investito in pieno dalla crisi economica (che per intensità e durata ha ormai superato quella degli Anni Trenta); più che il resto del Paese; e con conseguenze economiche, sociali e civili che potrebbero durare molto a lungo nel futuro, con ripercussioni sulla crescita e sulla coesione dell’intera Italia.
Fatto numero 2: questo è accaduto anche perché l’azione di politica economica non contrasta la crisi; anzi, le politiche dell’austerità hanno colpito il Sud più del resto d’Italia. Le politiche di sviluppo e coesione territoriale, con il governo Renzi, hanno poi raggiunto i minimi storici (dal 2 aprile non c’è nemmeno più un responsabile che se ne occupi); come Belusconi nel 2008-11, Renzi usa le risorse destinate per lo sviluppo del Sud come un “bancomat” per finanziare altre priorità (come fatto con la Legge di Stabilità, che ha sottratto 3,5 miliardi al Fondo Sviluppo e Coesione per destinarli alla decontribuzione in tutto il paese).
Questi due fatti sono evidenti nei numeri (della prima questione si occupa l’Economist in edicola), anche se quasi del tutto ignoti ai normali cittadini. Da essi scaturisce una interessante domanda: perché avviene il fatto 2 in presenza del fatto 1, e nessuno protesta o chiede di fare altrimenti?
La circostanza che i fatti siano “sommersi” certamente conta; ma la principale risposta è che un maggiore equilibrio territoriale nelle politiche di tassazione e di spesa, un ridisegno dei servizi pubblici che ne aumenti efficienza e qualità a vantaggio di tutti i cittadini italiani, e una strategia (e concreti interventi) per lo sviluppo delle aree più deboli, non interessano più a nessuno; in particolare a chi ha un qualche potere di fare qualcosa.
Non sembrano interessare – come detto - all’attuale governo, che cerca di consolidare la propria popolarità su altri temi, e del quale non si ricorda una sola affermazione politica di indirizzo sulle gravi questioni territoriali italiane. Forse troppo difficili, di “lungo periodo”, non tali da produrre velocemente consenso, per meritare attenzione.
Non sembrano interessare ai parlamentari di maggioranza, neanche a quelli eletti nel Mezzogiorno; non vale a dimostrarlo solo il fatto che il 24 marzo scorso alla Camera, alla discussione delle mozioni sul tema erano presenti 12 deputati in totale. E’ che non si ha traccia di attività per sollecitare una riflessione, una discussione, un’iniziativa su questi temi da parte di deputati e senatori di maggioranza. Spiace dirlo, l’impressione è che siano più interessati a riposizionarsi in termini di fedeltà verso il leader che a sollecitarlo o spronarlo su temi difficili; anche da questo punto di vista la somiglianza è molto forte con quello che si determinò nelle Camere fra il 2008 e il 2011.
Non sembrano interessare ai partiti; o a quel che ne resta, ed in particolare al Partito Democratico, che, neanche sotto elezioni – anche nel Mezzogiorno – batte un colpo.
Infine non sembrano interessare alle coalizioni che si autodefiniscono di “centro-sinistra” candidate a governare grandi regioni del Sud. Si parla molto della Campania e di De Luca. Ma la situazione in Puglia è peggiore: nonostante Emiliano fosse vincitore in partenza per il suicidio degli avversari, si è dedicato molto più a reclutare candidati con un forte bacino di voti – per usare un eufemismo - “personali” (creando una vera e propria melassa di interessi diversi, come ben descritto sull’Huffington Post), che proporre idee e progetti.
Un’ipotesi su cui varrebbe la pena discutere è che la politica sul e nel Mezzogiorno si è liquefatta. A scala nazionale. E nel Mezzogiorno. Dove alcuni pensano a sé stessi (sembra crescere il voto di scambio e clientelare); altri gettano la spugna (cresce la disaffezione di tanti cittadini per la cosa pubblica), e le forze e gli interessi legati ad un rilancio del suo sviluppo – che pure certamente non mancano - non hanno rappresentanza politica.
Non sembra una buona notizia, e non solo per i meridionali.
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