In un articolo sul "Mulino" (1/2010), scrivevamo che i Millennials - i ventenni del XXI secolo - sembravano possedere i requisiti adatti per aprire una nuova stagione di protagonismo giovanile. Non più passivi e individualisti come i fratelli maggiori, ma capaci di far rete e di mettersi in gioco per conseguire con determinazione obiettivi comuni.
Le vicende recenti evidenziano come nei Paesi avanzati in cui la domanda di cambiamento ha trovato risposte credibili proprio dai giovani sia arrivata la spinta risolutiva per il rinnovamento. Decisivo è stato, ad esempio, il voto degli under 30 per Obama. In altri Paesi, meno fortunati, le nuove generazioni si sono assunte il compito di forzare un cambiamento che non arrivava o appariva lento e poco credibile. È il caso dei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Ma particolarmente vivace e dura è stata anche la reazione in realtà come la Grecia e la Spagna.
In Italia, invece, la voce dei giovani continua ad essere flebile. Qualche segnale di irrequietezza ogni tanto affiora. Qualche manifestazione di piazza c’è stata. Ma troppo poco. Sicuramente non abbastanza per scuotere dalle fondamenta un Paese che oscilla tra l’apatia e la rassegnazione. Eppure le ragioni per metterlo, metaforicamente, a ferro e fuoco non mancano.
Perché allora i giovani italiani non sembrano riuscire a fare il salto di qualità verso una reazione unitaria “esplosiva”? Non c’è un’unica risposta. Indichiamo tre fattori che in modo concomitante contribuiscono a rendere le nuove generazioni italiane una forza debole del cambiamento.
Il primo motivo è la loro minore consistenza numerica. L’Italia è uno dei Paesi al mondo che più hanno visto alleggerirsi il peso demografico dei giovani. Nel passato la popolazione più matura aveva più potere ed esperienza, ma i giovani avevano dalla loro parte l’irruenza e la forza dei numeri. Ora non è più così.
Una seconda ragione può essere individuata nell’intensa dipendenza dalle risorse della famiglia di origine, che produce due effetti inabilitanti. Il primo è un più basso impulso alla contestazione perché comunque gli stili di vita dei giovani sono protetti dall’accentuata e prolungata disponibilità di aiuto, spesso più che compensatorio, dei genitori. Il secondo è che la loro reazione, da figli e non da cittadini, tende ad essere di tipo individuale, anziché collettiva e generazionale, perché benessere e successo sociale dipendono in Italia soprattutto dal sostegno che ciascuno può generosamente ottenere dai genitori.
Infine, mancano le élite generazionali. L’innovazione, il rinnovamento, partono usualmente da una élite che interpreta lo spirito dei tempi, cerca di farsi portavoce di esigenze e insofferenze più diffuse, indirizza l’azione verso obiettivi comuni. Queste avanguardie del cambiamento provengono usualmente da classi sociali medio-alte o appartengono comunque alle fasce più istruite e dinamiche. Ma chi si è scelto la famiglia giusta in cui nascere non ha problemi da condividere, gode anzi di un vantaggio competitivo nei confronti dei coetanei nel conquistare lavori ambiti e ben pagati, proprio per la particolare importanza che nel nostro Paese hanno le risorse dei genitori sul destino sociale dei figli. Inoltre, gli outsider più dinamici e preparati, possono trovare abbondanti soluzioni individuali agli ostacoli che incontrano in Italia andandosene all’estero.
Tuttavia, se le condizioni attuali persistono e anzi continuano a peggiorare, tutti questi fattori possono verosimilmente solo rallentare l’esplodere di un conflitto generazionale. Il fatto è che più passa il tempo, più i problemi si cronicizzano, più l’impatto rischia di essere duro. E meno agevole la via per una ricomposizione virtuosa.
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