Superato lo shock referendario e calato il polverone delle polemiche più aspre che hanno diviso il Paese negli ultimi mesi dell’anno trascorso si sta ora imponendo la domanda sul «che fare»: domanda a cui, alla luce dell’esperienza compiuta, dovremmo oggi cercare di dare risposta non più in termini di fazione, ma di ragione.

Per chi voglia usare gli occhi della ragione l’esito referendario sembra innanzitutto aver dimostrato cosa, almeno per il momento, non si deve fare.

Partendo dall’esperienza di due referendum costituzionali che, prima nel 2006 e poi nel 2016, hanno dato risultati nettamente negativi ed in termini significativamente crescenti, è indubbio che la prima cosa da non fare è quella di tentare nuovamente la strada di una «grande riforma» della Costituzione vigente che il Paese – anche se indotto da motivazioni sicuramente diverse – ha chiaramente dimostrato di non volere.

In una visione razionale e realistica è, dunque, bene che la carta repubblicana che da settant’anni regge la vita della nostra comunità nazionale resti quella che è nelle sue linee portanti, che riguardano non solo il sistema delle libertà (descritte nella prima parte), ma anche la forma di governo e Stato (tracciata nella seconda parte). E questo per un motivo elementare che il Paese dimostra, con il referendum, di avere ben compreso dal momento che la «palude» che con l’ultima «grande riforma» si dichiarava di voler superare trova certamente la sua prima causa non tanto nel modello costituzionale di cui disponiamo (modello che, almeno nel suo complesso, ha sinora retto bene la prova del tempo) quanto nelle disfunzioni di un sistema politico che dopo anni di affanno si presenta oggi in condizioni di crescente dissesto.

Ma esiste anche un’altra strada che una lettura razionale dell’esito referendario e del contesto politico in cui è maturato si dimostra, per il momento, non percorribile: ed è la strada di una riforma elettorale diretta a forzare al di là della ragionevolezza la distribuzione delle forze in campo, così da garantire «la sera stessa delle elezioni» la «vittoria sicura» di una maggioranza (sia pure artificiale) e la nascita di un governo stabile. Su questo terreno se è vero che ai fini del rafforzamento della governabilità il principio maggioritario – così come accade in tutte le democrazie meglio funzionanti – può essere utilmente adottato nelle sue diverse varianti, è anche vero che nei sistemi politicamente disomogenei e conflittuali, come è il nostro, tale principio può funzionare solo a condizione di non forzare la struttura del sistema fino a raggiungere il limite di una sua possibile rottura. In questo caso è l’assetto reale del sistema politico che deve darci la misura ed il punto di equilibrio su cui risulti possibile combinare la corretta rappresentazione delle forze in campo con il rafforzamento del potere di decisione della maggioranza. Il che, sempre secondo ragione, dovrebbe portare, in un sistema come il nostro, a sostituire alla «vittoria sicura» una «convivenza ragionevole».

Su questo terreno la risposta al «che fare» s’impone, dunque, oggi al nostro paese in tempi stretti almeno ove si voglia evitare di trasformare la lamentata «palude» nel possibile «baratro» di una ingovernabilità senza via di uscita. Ora, sul terreno dei sistemi elettorali, vediamo come in questo momento – nonostante l’avvicinarsi della scadenza naturale della legislatura – la situazione si presenti estremamente fluida, con la presenza di un ventaglio di proposte molto diverse e di alcuni punti fermi fissati dalla Corte costituzionale nei giudizi relativi agli ultimi due sistemi adottati (il Porcellum e l’Italicum). Nella difficoltà non solo politica ma anche tecnica di trovare rapidamente l’intesa su una formula elettorale in grado di ottenere un consenso più ampio di quello riferibile alla sola maggioranza governativa probabilmente la via più realistica e agevole da seguire resta quella, già messa in campo ma non ancora sufficientemente condivisa, di un ritorno all’«usato sicuro» rappresentato dalla legge Mattarella del 1993: una legge che, peraltro, risulta possibile correggere e migliorare anche attraverso un diverso dosaggio della quota proporzionale e della clausola di sbarramento, cioè con aggiustamenti tecnici in grado di ampliare il quadro delle possibili adesioni a tale modello, ma al tempo stesso di evitare il rischio dell’ulteriore frammentazione di un sistema che si presenta oggi già troppo parcellizzato.

Superato lo scoglio della legge elettorale un’intesa ragionevole sul «che fare» dovrebbe mettere subito in campo anche una circoscritta e ben calibrata riforma costituzionale diretta a superare l’aspetto più critico dell’impianto attuale rappresentato da un bicameralismo paritario non più sostenibile in termini politici.

In pratica questa riforma potrebbe investire tre aspetti agevolmente traducibili in una semplice norma costituzionale diretta a) a modificare l’articolo 94 della Costituzione vigente riferendo alla sola Camera il voto di fiducia; b) a riferire come contrappeso al Senato una funzione primaria di coordinamento delle politiche regionali e locali anche attraverso l’assorbimento delle competenze spettanti alle Conferenze Stato-Regioni e Stato-Regioni-Enti locali; c) a rinviare ai regolamenti parlamentari la previsione di una procedura coordinata per limitare i tempi della «navetta», rafforzando la presenza del governo nel procedimento legislativo parlamentare.

Si tratta di una modifica senza dubbio incisiva (e che riprende in parte il profilo più condivisibile della riforma bocciata), ma che risulta anche di agevole formulazione e di chiara comprensione: modifica rispetto a cui non dovrebbe risultare difficile conseguire il consenso più ampio tra le forze politiche così da giungere alla sua approvazione in tempi brevi e con la maggiorazione qualificata esclusiva della prova referendaria (come accadde nel 2012 con la riforma dell’art. 81 Cost.).

È questa una visione troppo ottimistica nelle condizioni date? Forse non troppo se alla fazione riusciamo a sostituire la ragione nella ricerca, divenuta improcrastinabile, di un interesse comune e non di parte alla manutenzione del nostro impianto costituzionale e se, in questa ricerca, riusciamo a proiettare correttamente l’esperienza più recente nella prospettiva più ampia della nostra vicenda repubblicana.