La corsa all’accaparramento delle mascherine è stato il segnale: ogni Paese europeo (compreso il nostro) che ha potuto mettere le mani su lotti di tale presidio sanitario lo ha fatto in barba a tutte le regole. Carichi destinati altrove sono stati dirottati o sequestrati. La catena di approvvigionamento globale si è interrotta, mettendo in luce uno dei problemi della globalizzazione: la delocalizzazione della produzione a volte non funziona. Soprattutto in tempi emergenziali.
Torna il concetto di «valore d’uso»: se c’è penuria, anche un oggetto semplice da fabbricare come la mascherina vale tanto. In Occidente non si produce più da tempo: manufatto a bassa tecnologia e dallo scarso valore di mercato, è stato appaltato all’Asia. Il fatto è che ora pesa molto di più del suo valore nominale perché nessuno ne ha, non esistono scorte, non si è pensato che sarebbero servite. Soprattutto non ci sono alternative immediate per una produzione su larga scala.
La dinamica mondiale della catena produttiva sta cambiando e con essa la globalizzazione. Quest’ultima non si arresta, ma mostra fragilità e squilibri. Il sistema di interdipendenza produttiva è troppo intrecciato per poterne fare a meno, ma è provato che non riesce ad adattarsi a un’emergenza veloce come quella del Coronavirus. Tutto questo fa pensare: siamo di fronte a una ripetizione di colli di bottiglia che strozzano il mercato e di conseguenza ci si dà all’accaparramento, quasi fossimo nel Medioevo. In particolare ciò avviene quando si tratta di prodotti standardizzati, semplici e non sostituibili. C’è da credere che tutta la «catena del valore» sarà ripensata e il concetto di settore strategico rivisto. Il modello di non avere troppe scorte, non fare stock e di operare in just-in-time non funziona più: lo sapevamo, ma ora lo tocchiamo con mano.
Questo non concerne soltanto il settore sanitario: l’attuale lockdown produttivo italiano mette in crisi altri settori. Ad esempio, come ha notato «Foreign Affairs», stanno mancando al settore automotive componenti elettroniche essenziali prodotte solo in Italia. Così come il settore dei laptop è diminuito a febbraio 2020 del 50% e lo stesso accade agli smartphone, così essenziali in tempi di quarantena.
Non è una questione che riguarda il settore privato soltanto: si tratta di un bel rompicapo geopolitico per gli Stati. Non è immaginabile un ritorno all’indietro in cui ogni Paese sviluppato produce quasi tutto in casa o tende a farlo. Come la mettiamo con il settore farmaceutico, così importante in Italia? Chi produrrà le medicine per tutti? Riconvertire non basta, anche perché le produzioni sono sempre più specializzate e non si può improvvisare. La politica dovrà mettere tale tema all’ordine del giorno mentre grandi e medie potenze opereranno una revisione strategica. In questo caso sarà il settore privato ad adeguarsi.
Così termina del tutto l’ordine mondiale liberale impostato nell’Ottocento dalla Gran Bretagna e proseguito dagli Stati Uniti nel Novecento: quello della primazia occidentale del libero mercato. A metterlo in crisi non è stata la partecipazione dell’Asia al grande mercato liberista ma la questione sovrana divenuta ora strategica: quali settori saranno considerati strategici nel futuro? Il concetto si allargherà: se non ci si può fidare del mercato, avverrà un’inversione di tendenza che cambierà molti comparti.
La prossima recessione economica ne ingenera dunque una geopolitica di grande rilevanza. Non siamo in una situazione G2 o Gmultipli, ma in un quadro a G0, cioè un mondo senza leadership, dove ciascuno si arrabatta per sé o si trova costretto a cavarsela da solo. Si creano dunque alleanze variabili da caso a caso, di cui abbiamo un esempio paradossale con il Coronavirus: in Italia giungono in queste settimane aiuti da Cina, Cuba e Russia. La tendenza generale va verso un’«esasperata transattivitá»: una situazione cioè in cui non contano le alleanze storiche, politiche o di schieramento, ma soltanto quelle contingenti basate su ciò di cui c’è un immediato bisogno e per quello che si dà in cambio.
È ovvio che in questo caso la Cina è favorita perché in vent’anni ha sviluppato le caratteristiche di «fabbrica del mondo»: un Paese cioè dove si produce di tutto in quantità considerevole, a partire dalle produzioni più semplici fino a quelle più complesse (per chiarire: dalle mascherine ai macchinari elettronici di terapia intensiva). Si tratta di una filiera produttiva alternativa a quella degli Stati Uniti. I Paesi medi, quelli che non possono permettersi di produrre tutto in casa propria, saranno obbligati a scegliere tra le due filiere. Nell’attuale particolare momento la maggioranza dei Paesi sembra propensa a rivolgersi piuttosto a Pechino, solo per il fatto che Washington ha alzato i muri con dazi e controlli, in nome dell’America First. Converrebbe invece all’America aprirsi del tutto, vista la capacità produttiva che possiede. Il terzo polo produttivo globale, l’Europa, dimostra di non averne la capacità: la crisi sanitaria odierna dimostra che il «grande mercato unico» in effetti non esiste, perché nessuno è disposto a coinvolgersi con gli alleati.
L’Ue è in crisi perché non viene ritenuta adatta a risolvere i problemi urgenti: i dissesti finanziari, i temi riguardanti la prospettiva politica e la sicurezza in senso ampio. Sulle crisi finanziarie si è detto molto. Per prospettiva politica si intende una posizione chiara sulle aree di crisi del mondo, ma Siria e Libia stanno lì a dimostrare l’impotenza europea. Infine sicurezza non si riferisce solo al comparto militare ma sicurezza alimentare, sanitaria, sociale, della ricerca ecc. Tutti settori che producono influenza politica. Per ora non se ne vede nemmeno l’abbozzo, come l’esempio del Coronavirus insegna: paradossalmente la ricerca europea sul virus avviene in ordine sparso, i dati non vengono condivisi, non esiste un protocollo comune su come trattare il virus né su come contare positivi, morti ecc. Uno stolido egoismo blocca qualunque sviluppo in materia.
Di conseguenza non solo assistiamo ad aree di instabilità politico-militare (vecchie e nuove) che permangono, ma anche a pericolosi squilibri di nuovo tipo e trasversali come quelli sulla ricerca medica e biologica. Malgrado la potenza della ricerca europea sia superiore, per il Coronavirus siamo appesi ai risultati cinesi o americani. La competizione Usa-Cina passa da essere meramente commerciale a divenire scientifica e tecnologica, come già il 5G ammoniva e ora la pandemia esprime in tutta la sua novità. Se c’era un terreno in cui l’Europa poteva diventare leader era assolutamente questo: la ricerca scientifica non militare, in particolare quella digitale, fisica, chimica, biologia, batteriologica e medicale. Ora sembra che ciò sia impossibile eppure è essenziale.
La ricerca scientifica non può essere soltanto affidata al mercato: essa diventa un’arma di politica estera e di influenza di prima grandezza. Diventa anche una garanzia di autonomia che non si può affidare alle imprese. Si tratta di una svolta geopolitica importante. Da tempo gli europei si erano adeguati al fatto che l’Europa non avesse il peso specifico adatto per interporsi politicamente nel settore strategico-militare in casi quali la dialettica Usa-Russia, la questione del nucleare iraniano o nord coreano, la guerra al terrorismo, i conflitti afgano o mediorientali ecc. Altresì l’Europa si stava rendendo conto di non poter influire molto nel settore dell’energia (vedi la «guerra dei tubi» dove Russia e Turchia giocano un ruolo importante). L’Europa restava tuttavia convinta di possedere il più grande mercato manifatturiero e un forte potere nel settore della ricerca sia sulle tecnologie di comunicazione che in quelle delle scienze dell’uomo e della società. Ora anche questo è messo in crisi dalla comune stupidità egoistica.
Il proliferare degli Stati, a cui si è assistito dalla caduta del muro di Berlino, ha provocato un’impennata globale dell’ideologia nazionalista e sovranista che ha mutato lo spirito del tempo. Globalizzazione e nazionalismo si sono sviluppati parallelamente nello stesso arco di tempo, imparando anche a convivere. Proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno, l’influenza delle organizzazioni e dei patti multilaterali è al minimo storico, come si è visto nel caso dell’accordo di Parigi sul clima e ora con l’Oms. Più Stati significa anche più egoismi, alleanze mutevoli, lotta negli interstizi della politica mondiale. La solidarietà internazionale non morirà ma sarà utilizzata come politica di influenza per farsi degli amici, abbandonando il sogno universale che l’aveva caratterizzata con le grandi conferenze mondiali di inizio secolo.
La domanda che gli Stati si pongono oggi prevalentemente è: in questa situazione quale può essere una politica estera plasmata sull’interesse nazionale? Si tratta di un interrogativo complesso se si naviga in mare aperto. Per sopravvivere le alleanze multilaterali devono essere più fortemente sentite, riuscendo a creare un pathos a livello nazionale. Sia l’Ue che, in misura diversa, la Nato e l’Onu, devono poter divenire immediatamente comprensibili al grande pubblico, pena la loro definitiva irrilevanza. Gli Stati non hanno interesse a farle scomparire ma a ridurne decisamente il peso e l’autonomia (in Europa ciò è rappresentato dallo squilibrio tra Consiglio e Commissione). Soltanto una forte connessione con le società potrà salvarle. In una democrazia efficiente basterebbe il risvolto parlamentare ma oggi ciò non è più sufficiente. È necessaria un’idea di leadership non egoista e un atteggiamento pronto ad assumere responsabilità più vaste, mettendo uno stop alla scorciatoia che consiste nello scaricare sempre tutte le colpe sull’esterno, sui vicini ecc. Tuttavia la lezione maggiore di questo tempo è che le leadership politiche, in particolare quelle europee, sono costrette ad agire sempre di più senza la legittimazione del multilaterale. Non si potrà più utilizzare la formula «ce lo chiede l’Europa» oppure «dipende dal fatto che siamo nell’Alleanza Atlantica» ecc. Sarà necessario un nuovo linguaggio politico per spiegare alla pubblica opinione scelte e azioni in base a un interesse nazionale «aperto», e non il contrario. In altre parole: i leader dovranno dimostrare più responsabilità.
Per l’Italia ciò ha conseguenze immediate e concrete. La sospensione del patto di stabilità europeo voluto dalla Commissione non ci deresponsabilizza, ma ci responsabilizza ancor di più. Dovremo dimostrare, innanzi tutto a noi stessi, che poter spendere di più significa reinventare un intero sistema di sanità e di welfare (senza dimenticare l’educazione, che sarà la prossima crisi visto l’anno quasi perduto malgrado l’utilizzo dell’online) che protegga i cittadini evitando gli errori del passato. È necessario dunque un pensiero lungo in termini di stato sociale utilizzando questa crisi come un’opportunità per reinventarci.
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