Ogni cinque anni Kassel diventa il centro della riflessione artistica contemporanea: dOCUMENTA pervade la città, che non ospita semplicemente la mostra, ma ne è motore e attore. Nel 1955 le macerie sono ancora il paesaggio quotidiano, e pochi edifici, tra cui il Fridericianum, testimoniano un passato di splendore: viene scelto proprio questo “rudere vuoto” per allestire la prima edizione, nata per riprendere i fili della ricerca artistica, spezzati – come ogni cosa – dal nazismo. A partire dal nome, dOCUMENTA (con un'inusuale, per il tedesco, d minuscola) dichiara una vocazione al far pensare, l'insegnare, secondo il docere latino che è anche mostrare, dire, rappresentare nel senso di mettere in scena. Mentre la cadenza quinquennale permette di avere il tempo per ragionare su processi trasformativi, cesure e ciclicità.
Quest'anno ricorre la tredicesima edizione, diretta da Carolyn Christov-Bakargiev, curatrice italiana, nata negli Usa e con origini bulgare: è una mostra immensa, con innumerevoli contenuti, affidati alle differenti sensibilità dei visitatori. Una delle possibili traiettorie di lettura potrebbe essere definita come Collapse and Recovery: molti dei lavori presentati negli spazi espositivi o sparsi per la città raccontano infatti collassi e riprese, crolli e guarigioni, di natura individuale ma soprattutto collettiva di fronte alle catastrofi belliche.
C'è il 1945 e ci sono i conflitti presenti. Ci sono le mele dipinte ossessivamente da un ex prigioniero politico di Dachau, Korbinian Aigner, che nel campo era stato avviato ai lavori forzati agricoli, sviluppando segretamente nuove tipologie di mele come creativo atto di resistenza. Ci sono le opere di Charlotte Salomon, forse tardivamente esposta nell'ambito dell'arte con il suo Leben? oder Theater? Ein Singspiel, un diario dipinto realizzato prima di essere deportata ad Auschwitz. Ci sono i tanti lavori su Breitenau, luogo a pochi chilometri da Kassel: convento, prigione, campo di concentramento poi riformatorio femminile nel dopoguerra, narrato dai film di Clemens von Wedemeyer, dalla ricerca pluridecennale di Gunnar Richter, dalle voci di Ines Schaber. Ci sono le installazioni sonore di Janet Cardiff, che raccontano nella foresta i suoni della guerra percepiti da un bambino, e che seguono le tracce della storia nella stazione. C'è la riproposizione di un brano di Pavel Haas, deportato perché ebreo e approdato nel campo “modello” – reso commedia per la Croce rossa – di Terezin: Susan Philipsz, in fondo al binario da cui partirono i deportati da Kassel, permette di dare un suono alle immagini dell'orchestra ripresa nel film di propaganda Theresienstadt: Ein Dokumentarfilm aus dem jüdischen Siedlungsgebiet, quandolo Studie für Streichorchester venne eseguito.
E ancora, si può percorrere il sentiero sonoro di Natascha Sadr Haghighian su una vera Trümmerberg, una montagna di macerie divenuta riva del Karlsaue park e base della Schöne Aussicht, la via panoramica. I mattoni, le murature, fino ai pezzi di stoviglie sono riconoscibili, realissimi, sotto ai nostri passi, mentre i fantasmi degli animali, sepolti insieme agli uomini e alle case, mandano i loro richiami a pochi passi da un'altra possibile scala del pendio: il monumento ai caduti nella guerra del 1914-1918, poi aggiornato, non senza difficoltà retorica, a quelli del 1939-1945.
Un sguardo inconsueto sulla Grande guerra è quello rivolto da Kader Attia, francese di origine algerina, che ragiona sul concetto di riparazione a partire da proiettili e ferite. I proiettili trasformati in vasi, crocifissi, souvenir vengono presentati insieme alle monete rese monili dalle popolazioni del Congo, non c'è differenza nell'appropriazione e trasformazione, nel cambiamento d'uso. Invece i volti – i gueules cassées, “grugni spaccati” – dei feriti, deformati e “riparati” dalla prima forma di chirurgia estetica, vengono accostati alle sculture africane: la guerra e la riparazione occidentali “plasmano” i volti, e Attia induce a guardarli tramite una lente etnografica ribaltata. E secondo Jimmie Durham, la storia d'Europa può essere riassunta proprio nell'accostamento di un frammento di selce e un proiettile corroso.
Ma se la guerra, dopo il 1945, ha attraversato l'Europa solo nei Balcani negli anni Novanta, molti diversi fronti sono aperti. Il Libano, la Palestina, l'Egitto, sono presenti a dOCUMENTA: a partire dai materiali diffusi sul web, Rabih Mroué si interroga sulla possibilità terribile di filmare la propria morte con un cellulare. Emily Jacir espone foto scattate di nascosto, ancora con il cellulare, ai libri palestinesi razziati e incamerati dalla biblioteca nazionale isrealiana dopo il 1948.
Ma soprattutto, Kassel dialoga con Kabul. Una parte della mostra è stata realizzata nella capitale afgana, concentrando l'attenzione, cinquantasette anni dopo, di nuovo su un rudere vuoto: il Darul Aman Palace, costruito negli anni Venti in stile occidentale. Il doppio video di Mariam Ghani e i due arazzi di Goshka Macuga creano un legame, una specularità tra i due edifici, le loro vicende storiche e il possibile futuro. Tacita Dean lavora sul paesaggio: spedisce a Kabul cartoline della Kassel di primo Novecento, sulle quali l'artista dipinge quello che ogni scorcio è diventato ora. Edifici a tralicci scompaiono sotto la gouache bianca, campanili antichi si trasformano in guglie moderne. Mentre il paesaggio afgano, con fiumi e montagne – quello che il conflitto non cancella – appare a gessetto bianco su lavagna all'interno di uno dei pochi edifici risparmiati dai bombardamenti alleati su Kassel, un'isola di passato fatta di una chiesa, alcune tombe antiche sparse nel prato e il palazzo d'angolo.
Le macerie sono protagoniste anche del lavoro di Theaster Gates, artista di Chicago che da là ha portato il materiale di risulta per trasformare la Hugonottenhaus, primo ricovero degli ugonotti in fuga dalla Francia del Seicento, distrutta dalle bombe, ricostruita e abbandonata, in uno spazio dove vivere e creare: quelle macerie stratificate divengono vive, riparate e risanate.
Questa edizione di dOCUMENTA non ha un titolo. Ma esiste un “cervello” dell'esposizione: una mostra nella mostra, una serie di opere giustapposte, apparentemente eterogenee. È nel loro accostamento, nella vicinanza tra le tele e le bottiglie di Morandi e oggetti fusi insieme provenienti dalle collezioni del Museo archeologico di Beirut, tra fotografie di innocui laghi cambogiani il cui letto in realtà è un cratere di una bomba e mattoni che la resistenza cecoslovacca usava a mo' di radio, che è possibile comprendere l'idea sottesa alla mostra. Il tornare alla vita, o forse il restare alla vita, per resistenza e, soprattutto, resilienza. Quella capacità di assorbire i colpi e tornare in equilibrio, trovando nell'elaborazione del trauma un'energia positiva di trasformazione.
Nel “cervello” spicca una serie di fotografie in bianco e nero: gli scatti di Lee Miller, musa di Man Ray e reporter di guerra, nel bagno della casa di Hitler a Monaco. Un bagno modesto, con una piccola statua in quello stile neoclassico amato, esaltato e imposto dal nazismo. E la fotografa, reduce dall'apertura del campo di Dachau, appare in posa come la piccola statua, intenta come a lavare via la morte che aveva attraversato. Appena oltre il bordo della vasca, in primo piano, i suoi scarponi militari. Lo sguardo pronto e le scarpe giuste sembrano essere l'equipaggiamento dell'artista per il tempo di guerra.
Ma il “lavoro” che forse colpisce di più è quello del pubblico: numerosissimo, attento, disposto all'ascolto e alla concentrazione anche di fronte alle fatiche fisiche, intellettuali ed emotive di una mostra ampia, diffusa e densa come questa. Potrebbe essere l'onda lunga dell'opera di Beuys, che aleggia su questa dOCUMENTA senza essere dichiaratamente presente: è sempre l'arte come scultura sociale.
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