Quando territori diversi si unificano formando Stati nazionali, oppure unioni di Stati, non vi è alcuna garanzia che si generi un processo di convergenza tra i vari pezzi che vengono a far parte della nuova unità, a meno che l’obiettivo della convergenza non venga perseguito esplicitamente e intenzionalmente come scelta politica. Anzi, senza un intervento politico, contrariamente a quanto sostengono alcune teorie economiche, prevale la tendenza all’aumento piuttosto che alla riduzione delle disuguaglianze territoriali, in particolare se assumono una configurazione dualistica.
Se guardiamo agli Stati Uniti, le disuguaglianze territoriali tra Stato e Stato sono assai sensibili e piuttosto stabili nel tempo: in termini di Pil pro capite un cittadino del Mississippi o dell’Arkansas non raggiunge neppure la metà del reddito di uno del Massachusetts o dello Stato di New York. La presenza di disuguaglianze interne tra Stati membri è compatibile quindi anche con uno Stato federale. Anche nell’Unione europea le disuguaglianze tra gli Stati membri sono dello stesso ordine di grandezza: il Pil della Grecia è appena sopra la metà di quello dei Paesi Bassi e quello della Bulgaria è un poco sotto.
L’Ue appare chiaramente divisa lungo due linee di faglia: una che separa il Nord dal Sud, l’altra che corre lungo l’asse Est-Ovest. Anche dal punto di vista delle disuguaglianze territoriali l’Europa è il luogo delle diversità. Poiché l’Ue è un’unione di Stati che hanno in parte rinunciato alla loro sovranità, ma in cui su una serie di questioni importanti l’organo decisionale resta il Consiglio europeo fatto dai capi di Stato e di governo, le diversità e le disuguaglianze pesano sui processi decisionali, sulla formazione degli schieramenti, sulle alleanze, soprattutto quando è richiesto un voto all’unanimità.
Lo si è visto quando i Paesi del patto di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) hanno fatto quadrato per opporsi alla distribuzione degli immigrati; lo si è visto in tema di debito pubblico nella contrapposizione tra Paesi debitori e Paesi creditori; lo si è visto anche recentemente quando i cosiddetti «Paesi frugali» (Austria, Danimarca, Olanda, Svezia e qualche altro) hanno cercato di opporsi alla creazione del Recovery Fund e a un primo embrione di fiscalità europea. Le disuguaglianze tra Stati sono destinate a pesare in misura non irrilevante sul raggiungimento di un grado minimo di coesione sociale e di «solidarietà» senza il quale è difficile tenere insieme un’unione già costituzionalmente debole quale l’Ue.
Peraltro, le disuguaglianze territoriali all’interno degli Stati non sono di minore entità rispetto a quelle tra gli Stati e anch’esse producono effetti su coesione e solidarietà a livello nazionale. Se prendiamo il reddito pro capite come misura rozza ma affidabile di disuguaglianza e se si escludono le regioni intorno alla città capitale che spesso sono sensibilmente più prospere, in Germania il reddito pro capite del Land più povero (il Meclemburgo-Pomerania anteriore) è solo il 58% di quello del Land più ricco (la Baviera); la stessa proporzione vale anche tra l’Estremadura e la Catalogna, in Spagna, e tra il Burgenland e Salisburgo, in Austria, mentre in Italia il reddito medio di un abitante della Calabria è solo il 46% di quello di un lombardo. Disuguaglianze interne assai marcate sono presenti anche in Belgio, in Portogallo, in Polonia e nel Regno Unito, che però dopo Brexit non è più parte dell’Ue.
[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 5/20, pp. 747-761. Il fascicolo è acquistabile qui]
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