Il tema della disuguaglianza sociale è spesso analizzato ponendo l’accento sui differenziali di natura economica, che vengono individuati come causa delle altre forme di disuguaglianza o, talora, come un loro stesso effetto. Per alcuni segmenti di popolazione, elevati livelli di disuguaglianza si traducono in gravi forme di esclusione sociale e di povertà estrema, che possono generare conflitto e instabilità sociale, rappresentando un freno allo sviluppo di un Paese.
In Italia, la diffusione della povertà, e in particolare della povertà misurata in termini assoluti (che identifica come poveri tutti i membri delle famiglie con un livello di spesa per consumi così basso da non poter garantire l’acquisizione di beni e servizi considerati essenziali per uno standard di vita minimamente accettabile), ha assunto dimensioni crescenti, anche se in misura eterogenea sul territorio e per sottogruppi di popolazione. La quota di famiglie povere, aumentata sensibilmente a partire dalla crisi dei debiti sovrani della seconda metà del 2011, è salita ulteriormente nel 2020 a causa della pandemia, ma rimanendo sostanzialmente stabile l’anno seguente (Istat, Report: La povertà in Italia, 2021).
Nel 2021, rispetto al 2005 (inizio della serie delle stime con l’attuale metodologia), il numero di famiglie povere assolute è più che raddoppiato (1 milione e 960 mila, il 7,5% del totale), mentre gli individui poveri sono quasi triplicati (5 milioni e 600 mila, il 9,4%, di cui 1 milione e 600 mila stranieri). In seguito all’emergenza sanitaria, i preesistenti divari territoriali si sono ampliati ulteriormente. Sebbene nel 2020 la crescita dell’incidenza di povertà sia stata più accentuata nel Nord (9,3% degli individui, +2,5 punti percentuali rispetto al 2019, contro +1 del Mezzogiorno) – l’area più colpita dalla prima ondata pandemica – nel 2021, in questa stessa ripartizione, si registrano segnali di miglioramento (l’incidenza scende all’8,2, pur rimanendo di 1,4 punti superiore a quella del 2019), mentre nel Mezzogiorno la quota di poveri raggiunge il punto più alto della serie (12,1%, +2,0 punti in più del 2019) (cfr. par. 4.3, Le famiglie in disagio economico, in Istat, Rapporto annuale 2022).
Rispetto al 2005, la povertà assoluta è oggi più frequente di oltre tre volte tra i minori (14,2%) e di quasi quattro volte tra i 18-34enni (11,1%). La povertà dei più giovani è particolarmente diffusa tra le famiglie con stranieri che, in complesso, presentano livelli di povertà assoluta quasi cinque volte più elevati (nel 2021, 26,3%, che diventa 30,7% quando è presente almeno un minore) di quelli delle famiglie composte solamente da italiani. Per gli anziani, al contrario, anche grazie al ruolo di protezione economica svolto dai trasferimenti pensionistici, l’incidenza è decisamente inferiore alla media (5,3%, contro 9,4%).
Pure come effetto della progressiva diffusione di forme di lavoro non-standard (dipendenti a tempo determinato, collaboratori, lavoratori part-time non per scelta), la povertà coinvolge sempre di più anche gli occupati. Nonostante tra le famiglie con persona di riferimento in cerca di lavoro l’incidenza di povertà sia particolarmente elevata (22,6% nel 2021), la quota di famiglie povere con persona di riferimento occupata è significativamente cresciuta (dal 2,2% del 2005 al 7% del 2021), soprattutto nel caso dei lavoratori dipendenti inquadrati nei livelli più bassi (13,3%) e per coloro che svolgono un lavoro autonomo (7,8%).
Il mercato del lavoro è uno dei contesti in cui gli antichi divari socio-economici che caratterizzano il nostro Paese si manifestano con maggiore evidenza. E gli effetti della pandemia hanno ulteriormente ridotto gli occupati (-3,1%)
Il mercato del lavoro è uno dei contesti in cui gli storici divari socio-economici che caratterizzano il nostro Paese si manifestano con maggiore evidenza. Le misure di contenimento dei contagi da Covid-19 hanno avuto effetti importanti sulle dinamiche occupazionali (cfr. par. 2.4, L’impatto sul mercato del lavoro: l’Italia nel contesto europeo, in Istat, Rapporto annuale 2022), collocando l’Italia tra i Paesi Ue con la più marcata riduzione di occupati tra il 2019 e il 2020 (-3,1%) e interessando soprattutto i lavoratori che già versavano in condizioni di maggiore vulnerabilità. Anche a causa di una presenza maggiore di lavoratrici nei settori economici maggiormente colpiti dalle misure di contrasto all’epidemia, il costo più elevato è stato pagato dall’occupazione femminile che, nella media del 2020, diminuisce del 3,8%, contro un calo del 2,6% registrato per gli uomini.
Oggi, in Italia, ancora la metà delle donne in età attiva si colloca al di fuori del mercato del lavoro e, dunque, non è irrisorio il contributo in termini di Pil che potrebbe essere assicurato da un tasso di occupazione femminile più prossimo a quello medio europeo. Il lavoro delle donne concorre, infatti, non solo a migliorare il benessere familiare, contenendo il rischio di povertà nel corso della vita, ma anche all’aumento della domanda di servizi di cura alle persone che, a sua volta, genera ulteriore occupazione e reddito, stimolando la nascita di nuova imprenditoria e l’incremento del gettito fiscale. La scarsa partecipazione al mercato del lavoro che contraddistingue le donne si associa anche a retribuzioni mediamente meno elevate rispetto a quelle degli uomini. Il differenziale retributivo di genere, Gender pay gap (Istat, La struttura delle retribuzioni in Italia, 2018), calcolato come differenza percentuale tra la retribuzione oraria media di uomini e donne rapportata alla retribuzione oraria degli uomini, nel 2020, è pari al 5,5% ed è più alto tra i dirigenti (27,3%) e i laureati (18%), confermando l’esistenza di fenomeni di segregazione occupazionale che limitano l’accesso delle donne ai posti di lavoro meglio retribuiti e alle imprese ad alto salario. D’altra parte, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro si mostra fortemente legata ai carichi familiari (cfr. par. 3, Le lavoratrici con figli piccoli più penalizzate di quelle senza figli, in Istat, Rapporto Bes 2020, Il benessere equo e sostenibile in Italia), con divari territoriali molto elevati: nel 2021, il tasso di occupazione delle 25-49enni passa dal 78,7% per le donne che vivono da sole al 72,3% per quelle che vivono in coppia senza figli, scendendo al 57% per le madri con almeno un figlio minore (68,7% per le residenti nel Nord e 37,4% nel Mezzogiorno). Lo svantaggio occupazionale delle madri si riduce invece sensibilmente per chi ha conseguito un elevato titolo di studio (70%).
In Italia, tassi di occupazione più bassi per le madri e una fecondità in costante calo, che si accompagna a una più elevata propensione ad avere figli nelle aree a maggiore sviluppo, testimoniano l’esistenza di un contesto socio-economico che ostacola la realizzazione dei progetti riproduttivi delle generazioni in età feconda, distinguendosi per la scarsità di risorse investite a favore dei minori e l’insufficienza delle politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia. Il numero medio di figli per donna continua a decrescere a partire dalle generazioni dei primi decenni del secolo scorso, determinando un costante declino del numero di nati – il valore medio di figli stimato per la generazione del 1978 è pari a 1,43 (cfr. par. 5.9, Il calo della fecondità tra rinvii e rinunce, in Istat, Rapporto annuale 2020) – e un consistente aumento della quota di donne che alla fine del periodo riproduttivo rimane senza figli (il 22,5% delle donne nate nel 1978).
Tassi di occupazione più bassi per le madri e una fecondità in costante calo testimoniano la difficoltà di realizzazione dei progetti riproduttivi delle generazioni in età feconda, a cui si aggiungono la scarsità di risorse investite a favore dei minori e l’insufficienza delle politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia
A ciò si aggiunga che l’attuale dinamica naturale è in buona parte il frutto della struttura demografica. Le folte generazioni del baby boom sono infatti uscite dall’intervallo riproduttivo e stanno entrando nella terza età. Ciò significa che la natalità non precipita solamente per una propensione a fare meno figli e a procrastinare il calendario riproduttivo (oltre 32 anni), ma soprattutto per effetto della riduzione del contingente di donne in età feconda a cui si può attribuire più dei due terzi della differenza di natalità osservata nell’ultimo decennio.
La condizione delle giovani generazioni appare dunque preoccupante, soprattutto se si considera che la struttura per età della popolazione residente in Italia presenta una quota di anziani sempre più rilevante (nel 2021, 182,6 anziani ogni 100 giovani fino a 14 anni), con un numero crescente di persone inattive e con limitazioni dell’autonomia personale, a fronte di una progressiva riduzione delle persone in età attiva (Istat, Previsioni della popolazione residente e delle famiglie, 2020). Una situazione che non può che spingere verso l’alto i livelli della spesa pubblica in ambito sanitario, previdenziale e assistenziale, con ripercussioni negative sulle risorse da destinare alle famiglie con figli e sulla già scarsa mobilità sociale intergenerazionale che ci contraddistingue.
D’altra parte, i giovani sono stati colpiti duramente dagli effetti della pandemia. Le misure messe in atto dal governo a sostegno dell’occupazione hanno contenuto in modo significativo le perdite occupazionali del lavoro privato, incidendo meno, però, sui segmenti già poco tutelati del mercato del lavoro (cfr. par. 4.1, I lavoratori vulnerabili, in Istat, Rapporto annuale 2022), proprio quelli che includono più spesso le giovani generazioni. Tra il 2019 e il 2020, in Italia, il calo di degli occupati 15-24enni è stato particolarmente marcato (9,6%, contro il 6,1% nella media Ue27), con una riduzione del tasso di occupazione di 1,8 punti percentuali. Nel 2021, il tasso di occupazione dei 15-24enni - già il più basso tra le principali economie dell’Ue27 - è rimasto di circa un punto percentuale al di sotto del valore 2019.
Il quadro non migliora se consideriamo la qualità del lavoro dei giovani: nel 40% dei casi gli occupati fino a 34 anni sono lavoratori non-standard che, in assenza di uno o più elementi caratteristici del lavoro tradizionale (ad esempio, la regolarità o una copertura assicurativa generalizzata), presentano più spesso una retribuzione oraria contenuta, insieme a contratti di lavoro di breve durata e intensità, e livelli retributivi annuali decisamente ridotti.
A delineare il quadro delle disuguaglianze sociali nel nostro Paese contribuisce anche la difficoltà a entrare, permanere e a progredire nel mondo del lavoro da parte delle persone con disabilità e dei loro familiari (cfr. par. 4.5, Disabilità e disuguaglianza: causa o effetto?, in Istat, Rapporto annuale 2022) . Sono circa 2 milioni e 800 mila le famiglie che hanno al proprio interno un componente con disabilità e, tra gli individui di 35-64 che vivono in queste famiglie, gli occupati sono meno del 60%. Circa la metà delle famiglie con persone con disabilità riceve trasferimenti economici, senza i quali si stima che il rischio di povertà salirebbe in misura considerevole (nel 2019, dal 20 al 32,8%); pur tuttavia, un quinto delle famiglie con almeno una persona con disabilità è deprivato.
L’istruzione è una delle leve più efficaci nel condizionare opportunità ed esiti di vita, per garantire a tutti uguali opportunità di cittadinanza attiva, aumentare il livello di coesione sociale e ridurre i costi di tutela. Negli anni più recenti, la disuguaglianza sociale si è espressa anche nel diverso accesso alla didattica a distanza resa necessaria dalla crisi sanitaria. Nonostante le misure messe in atto per affrontare l’emergenza abbiano generato un miglioramento delle competenze digitali, l’anno scolastico 2020/2021 è stato segnato da una perdita generalizzata di apprendimenti fondamentali come italiano e matematica, che peraltro diventa più marcata al crescere del ciclo di istruzione. Si osserva inoltre un ampliamento delle disuguaglianze educative, con le regioni del Mezzogiorno che si sono allontanate dal resto del Paese, anche per effetto delle maggiori difficoltà da parte di scuole e famiglie ad adeguarsi ai cambiamenti richiesti, soprattutto in contesti socio-economici particolarmente disagiati. E la quota degli esclusi tra i ragazzi con disabilità è stata più elevata.
Sul fronte dell’istruzione, l’Italia presenta un ritardo storico rispetto ai paesi più avanzati, con una quota di laureati decisamente più bassa della media europea (in Istat, Livelli di istruzione e livelli occupazionali, 2021), persino tra i giovani. I ragazzi tra i 30 e 34 anni che hanno conseguito una laurea sono appena il 27,8%, contro una percentuale che, in media, nei paesi Ue27, si attesta al 41%. Il gap da colmare con le altre grandi nazioni dell’Unione (Francia, Spagna e Germania registrano quote pari al 48,8%, 44,8% e 36,3%, in crescita anche nell’ultimo biennio) è davvero molto ampio e negli anni non si è ridotto.
Il nostro problema è duplice, non solo per un numero contenuto di giovani che arrivano a conseguire una laurea, ma anche per la scarsa capacità del sistema d’istruzione terziario di andare incontro alle esigenze dell’economia reale. Basti pensare che soltanto un quarto dei laureati (25-34enni) si laurea nelle aree disciplinari scientifiche e tecnologiche, le cosiddette lauree Stem (17,0% delle donne contro il 36,8% degli uomini); in questo caso siamo su valori più simili alla media europea, anche se ancora distanti da quello della Germania (32,2%). A ciò si aggiunga che il divario territoriale a sfavore del Mezzogiorno resta molto marcato (solo il 21,3% dei giovani è laureato, contro il 31,3% del Nord e il 32,0% del Centro) e che il trasferimento di laureati verso il Centro Nord, accentuato dalla doppia crisi tra il 2008 e il 2013, contribuisce all’erosione del capitale umano di questa area geografica. Sappiamo infine che, il nostro, è ancora oggi l’unico Paese dell’Unione europea in cui l’offerta formativa terziaria non rappresenta un’adeguata quota di percorsi di studio professionalizzanti o cicli brevi a stretto contatto con il mondo del lavoro. La mancanza di un canale vocational del livello terziario è una delle principali cause del basso tasso di laureati, ma è anche un fattore che pesa sul destino sociale dei figli delle classi più disagiate, impedendo al sistema di svolgere quella funzione di mobilità sociale che si osserva in altri paesi europei.
I problemi che investono il sistema di istruzione e il mercato del lavoro riguardano anche la qualità dei laureati e l’utilizzo inefficiente della forza lavoro che discende dalla mancata corrispondenza tra le caratteristiche dell’occupato e quelle della professione svolta. La quota di occupati con un titolo superiore a quello richiesto per svolgere la professione è in lenta e costante crescita. Nel 2021, oltre un quarto (25,8%) dei lavoratori è sovraistruito (cfr. par. 3, Aumenta il sottoutilizzo della forza lavoro, in Istat, Rapporto Bes 2021, Il benessere equo e sostenibile in Italia), e il fenomeno è più diffuso proprio tra gli occupati con un titolo di studio terziario (31,3% dei laureati e 35,6% delle laureate).
Il deficit nell’istruzione costituisce una delle debolezze strutturali del nostro Paese che rischia di mettere a repentaglio le prospettive di una crescita inclusiva, robusta e duratura. È dunque fondamentale il ruolo che giocheranno le azioni previste nell’ambito del Pnrr per rafforzare il sistema educativo e preparare un’offerta di lavoro qualificata e pronta alle sfide tecnologiche e produttive di una società in rapido mutamento.
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