Dal 30 giugno di quest’anno è entrata in vigore, relativamente in sordina, la riforma del pre-ruolo universitario che modifica la cosiddetta legge Gelmini (legge n. 240/2010). Il 29 giugno scorso, infatti, è stato pubblicato in "Gazzetta Ufficiale" il testo della legge n. 79 di conversione del decreto-legge n. 36/2022, contenente “Ulteriori misure urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)” (cosiddetto decreto Pnrr bis). Questa riforma, inizialmente contenuta in una proposta di legge presentata nell’estate 2018 e rimasta ferma per anni dopo essere stata fortemente criticata ed emendata, ha subito un’improvvisa accelerazione quando è stata inserita nell’art. 14 del
decreto-legge sopracitato, che ne ha determinato l’entrata in vigore nel giro di due mesi circa.
 
Chiaramente, essendo “seppellita” all’interno di un testo di 96 pagine, moltissimi docenti e soprattutto moltissimi precari/e sono stati colti alla sprovvista. In effetti, alcune delle misure, soprattutto in materia di contratti precedenti a quelli tenured, erano richieste per ricevere l’approvazione da parte della Commissione europea del Pnrr e quindi sono state velocemente introdotte impedendo, però, qualsiasi forma di confronto allargato. Un fatto particolarmente grave visti i profondi cambiamenti che la riforma apporta alla fase antecedente al raggiungimento di una posizione da professore associato e le conseguenze che determinerà sui/sulle precari/e. Senza lo stanziamento di alcuna risorsa aggiuntiva, è prevista l’abolizione degli assegni di ricerca, considerati dall’Europa contratti non ammissibili, e la loro sostituzione con un contratto biennale, rinnovabile solo una volta, più vicino a quello dei ricercatori a tempo determinato di tipo A (RtdA) della riforma Gelmini. Come si legge nel testo, “il contratto di ricerca rappresenta, tuttavia, un passaggio soltanto eventuale nel pre-ruolo universitario e deve intendersi esclusivamente come legato alla realizzazione di specifici progetti di ricerca”. Inoltre, è previsto un tetto di spesa, pari alla spesa media in assegni di ricerca dei tre anni precedenti alla riforma, da destinare a questa figura, la quale, però, costerà circa il triplo dei vecchi assegni. Di conseguenza, subito dopo il dottorato si dovrebbe accedere in tempi brevissimi al nuovo contratto da ricercatore a tempo determinato tenure track (Rtt) della durata di massimo 6 anni che prevede, come dice il nome, uno sbocco nel ruolo di professore associato.
L’Italia, come d’altronde tutti i Paesi europei, non è immune dal fenomeno della progressiva riduzione della componente femminile a mano a mano che si avanza nella carriera accademica. Nel 2021 le donne erano il 51% degli assegnisti, il 44% dei ricercatori a tempo determinato, il 41% dei professori associati e il 26% di quelli ordinari
Ora, sebbene il gender mainstreaming sia una delle parole-chiave più utilizzate a livello europeo nei processi di policy-making, stupisce che su un tema così importante non siano stati minimamente tematizzati i possibili effetti di questa riforma sulle diseguaglianze di genere in accademia (oltre che sulla vita degli/delle attuali precari/e, ma questa è un’altra storia). L’Italia, come d’altronde tutti i Paesi europei, non è immune dal fenomeno della leaky pipeline, cioè della progressiva riduzione della componente femminile a mano a mano che si avanza nella carriera accademica. Nel 2021, infatti, le donne in Italia rappresentavano il 51% degli assegnisti, il 44% dei ricercatori a tempo determinato, il 41% dei professori associati e il 26% di quelli ordinari.
 
La riforma Gelmini – che a sua volta non aveva preso in considerazione gli effetti di genere delle misure che introduceva – assumeva che, con l’introduzione di valutazioni basate solo su “merito” ed “eccellenza”, questa situazione sarebbe cambiata e che finalmente le diseguaglianze di genere in accademia si sarebbero ridotte. In parte è effettivamente avvenuto; tuttavia, la riforma ha determinato nuove forme di discriminazione che non agiscono solo nelle posizioni più elevate ma anche nelle fasi iniziali della carriera.

Le donne, infatti, oltre al “soffitto di cristallo”, si scontrano con la “porta di cristallo”, cioè più difficilmente e in tempi più lunghi accedono alle posizioni da ricercatore, in particolare a quelle tenure track come il ricercatore di tipo B (RtdB) (Fonte: Anvur, 2018). Poiché il precariato universitario si colloca durante una fase del corso di vita particolarmente complessa e in piena età fertile, questo determina molto spesso un abbandono femminile della carriera accademica in favore di lavori più stabili e che meglio si conciliano con gli impegni familiari. Viene da chiedersi, dunque, se l’attuale riforma del pre-ruolo abbia preso in considerazione questi aspetti e se sia in grado di ovviare al problema.

Nel breve periodo la riforma prevede un taglio di 1/3 degli attuali precari e precarie e, poiché le donne sono più rappresentate nella categoria degli assegnisti, si può ragionevolmente supporre che questi tagli le colpiranno in misura maggiore
Per rispondere è utile distinguere tra effetti di breve e di lungo periodo. Nel breve periodo manca un vero e proprio regime transitorio e, al netto di piani di reclutamento straordinari di Rtt e di improvvisi aumenti di finanziamento, si prevede un taglio di 1/3 (circa 5 mila) degli attuali precari e precarie, nonostante in Italia il rapporto studenti/docenti, nel 2021, sia arrivato addirittura a 31:1 (avendo l’università perso oltre 20 mila strutturati dal 2008 a oggi). Ora, poiché le donne sono più rappresentate nella categoria degli assegnisti, si può ragionevolmente supporre che questi tagli le colpiranno in misura maggiore. Inoltre, se insicurezza e instabilità lavorativa sono fra le maggiori cause di abbandono della carriera da parte delle donne, è lecito pensare che lo scenario di “collo di bottiglia” che si prospetta nei prossimi anni per accedere alle posizioni da Rtt possa avere un effetto scoraggiante.
 
Nel lungo periodo, sulla carta, si dovrebbe ridurre la durata del precariato (che comunque può raggiungere fino a 11 anni, a fronte dei 12 massimi previsti dalla legge Gelmini), ma non è previsto alcun meccanismo che permetta quantomeno di monitorare se l’accesso alla figura del ricercatore tenure track sarà genderizzato, come è accaduto fino a oggi per i posti da RtdB. Si potrebbe obiettare che l’ingresso in queste posizioni è sbilanciato a favore degli uomini perché le donne sono meno qualificate: in realtà, guardando i dati relativi alle abilitazioni necessarie per l’accesso alle posizioni da professore associato (sbocco naturale dell’RtdB) e da ordinario, a fronte di percentuali di successo simili per uomini e donne – anzi, per la prima fascia, si abilitano il 62% del donne e il 59,4% degli uomini – le donne più raramente entrano in servizio.

Un ultimo elemento di criticità e di possibile esacerbazione delle diseguaglianze di genere attiene alla “premiazione” della mobilità. Nella proposta originaria si prevedeva che non si potesse prendere servizio come Rtt in alcun ateneo con cui si fosse collaborato nei cinque anni precedenti. Fortunatamente questa previsione è stata modificata e sostituita da un provvedimento che dà comunque priorità nell’ingresso nelle posizioni da Rtt a chi ha svolto almeno 3 anni in altro ateneo (il 25% delle posizioni nel regime transitorio, 1/3 a regime). Anche in questo caso, non si prevedono possibili “correttivi” sulla base, ad esempio, della presenza di carichi di cura che notoriamente scoraggiano maggiormente la mobilità femminile – nazionale e internazionale – rispetto a quella maschile. Né si considera il peso dei supervisor nel garantire l’accesso a reti che facilitino la mobilità e che, di nuovo, hanno un carattere fortemente genderizzato.

Insomma, a fronte di atenei che corrono a implementare Gender Equality Plan per poter continuare ad accedere ai fondi Horizon 2020, nessuno di coloro che hanno contribuito a scrivere la riforma si è interrogato sui suoi effetti sulle diseguaglianze di genere. Peccato, perché sarebbe stata l’occasione per porsi davvero il problema di come limitare l’esclusione delle donne dalla scienza, ma anche per riflettere più in generale sullo “stato di salute” dell’accademia italiana e di chi ci lavora.