È passata in sordina la recente entrata in vigore del Dpcm 76/2018 (attuativo dell’art. 22, co. 2 del Codice dei contratti pubblici), che ha dato attuazione in Italia allo strumento del “Dibattito pubblico” (Dp). Dallo scorso 24 agosto infatti, ogniqualvolta verrà messa in cantiere la costruzione di una grande opera infrastrutturale o architettonica, sarà obbligatorio avviare un processo di discussione partecipata in merito alla sua progettazione.
Il decreto definisce sinteticamente questo istituto come “il processo di informazione, partecipazione e confronto pubblico sull’opportunità, sulle soluzioni progettuali di opere, su progetti o interventi di cui all'Allegato 1”. Altrimenti detto, si tratta di un passaggio procedurale di confronto tra pubblica amministrazione e società civile (singoli cittadini, associazioni, organizzazioni non governative ecc.) sull’iter di formazione delle decisioni riguardanti opere e infrastrutture che abbiano un particolare impatto sociale e ambientale, tutte elencate dall’allegato al decreto. Tra queste si trovano ad esempio opere stradali, ferroviarie, aeroportuali e infrastrutture energetiche e per ciascuna di queste vengono prevista una soglia dimensionale e una economica da cui dipende l’eventuale obbligatorietà del Dp.
È assai probabile che la motivazione che ha mosso il legislatore italiano nella direzione di dotare l’ordinamento di questo strumento sia individuabile nella volontà di arginare il potenziale conflittuale che quasi sempre scaturisce dalla progettazione grandi opere. Da un lato, si trova l’opposizione dei residenti coinvolti (la cosiddetta “sindrome Nimby”) e, dall’altro, quella dei gruppi ambientalisti. Dunque, la possibilità di introdurre uno strumento finalizzato a convogliare gran parte dei potenziali conflitti in una sede ideata appositamente per far emergere una posizione condivisa e di sintesi tra le contrastanti opinioni in campo si è offerta come una soluzione vincente sotto ogni punto di vista.
Per quanto l’introduzione del Dp rappresenti una grande novità a livello nazionale, è bene tenere a mente che non è una creazione del tutto originale
Per quanto l’introduzione del Dp rappresenti una grande novità a livello nazionale, è bene tenere a mente che non è una creazione del tutto originale. Il legislatore si è senza ombra di dubbio ispirato alla ormai ventennale esperienza del francese débat public, riprendendone non solo il nome ma anche gran parte delle modalità di funzionamento. Osservando questa esperienza si apprende che, perché funzioni, il Dp deve essere strutturato di modo che tutte le parti coinvolte si sentano parimenti considerate e ciascuna opinione venga egualmente valutata. Pertanto, la scansione temporale è essenziale, in particolare con riferimento alla fase di avvio della procedura che deve necessariamente intervenire quando l’Ente aggiudicatore ha individuato e delineato tutte le possibili alternative progettuali, ma su cui non ha ancora preso una decisione definitiva. È infatti importante che il Dp possa idealmente condurre anche alla cosiddetta “ipotesi zero”, ossia alla decisione estrema di non realizzare l’opera. Solo così si può realmente evitare il rischio di strumentalizzare decisioni in larga misura già prese a priori, facendole invece passare come scelte ampiamente condivise poiché emerse da un percorso democratico partecipativo anche quando, a conti fatti, la partecipazione è solo di facciata.
Tuttavia, non serve necessariamente andare oltralpe per trovare dei precedenti di Dp; anche all’interno dei confini nazionali lo strumento è già stato sperimentato in passato, sia a livello locale sia a livello regionale. Nel 2009 Società Autostrade per l’Italia, in accordo con il Comune di Genova, decideva di avviare – per la prima volta in Italia – un Dp per affrontare la spinosa questione della viabilità cittadina e delineare un nuovo tratto autostradale (cosiddetta Gronda) per alleggerire il traffico anche sul recentemente crollato, e già allora intasatissimo, ponte Morandi. Concretamente, venivano presentate alla città cinque alternative di tracciato, tutte parimenti valide e possibili. È su queste che si è sviluppato il Dp, ossia una lunga serie di incontri, di presentazioni e di workshop, tenutisi nelle sedi decentrate dei Municipi interessati dall’infrastruttura e dal suo impatto. Il Dp ligure è generalmente considerato un successo sia dal punto di vista della partecipazione – è riuscito a coinvolgere più di duemila persone – sia rispetto alla qualità dei contenuti della discussione, come emerge dall’ipotesi finale selezionata che, sulla base delle indicazioni emerse durante il Dp, è stata notevolmente migliorata rispetto all’impatto sia sul territorio sia sull’ambiente.
Nonostante l’accoglienza positiva degli esiti del Dp, ci si concede qualche dubbio rispetto all’opportunità e all’adeguatezza del meccanismo partecipativo anche a fronte dei drammatici fatti di Genova. Escludendo l’esistenza di un qualsivoglia nesso tra il Dp e quanto tragicamente accaduto al ponte Morandi, ci si domanda comunque se non sarebbe stato più opportuno lasciare nelle sole mani dei rappresentanti e dei tecnici la responsabilità di individuare la decisione più coerente, anche vista la gravità e l'urgenza della situazione ben nota agli esperti del settore, forse meno nota agli abitanti coinvolti nella procedura. Combinare l’alto grado di tecnicismo che riguarda alcune scelte – non solo in ambito infrastrutturale ma anche ad esempio in quello economico-finanziario o ambientale – con la volontà di includere la società civile nell’adozione delle stesse è operazione talmente complessa e delicata che viene da chiedersi se non sarebbe meglio lasciare questo tipo di decisioni alla esclusiva competenza dei politici – democraticamente chiamati a svolgere questo ruolo – e dei tecnici – professionalmente tenuti a assistere a questi processi. Infatti, aggiungere una fase partecipativa al tradizionale procedimento decisionale non solo rallenta l’incedere dei lavori, ma allo stesso tempo fa ricadere sugli “ordinari cittadini”, talvolta ignari, talvolta attenti solo a interessi parziali, la valutazione di questioni forse troppo tecniche e complesse per essere comprese appieno.
Come detto in precedenza, anche a livello regionale si incontrano pregresse esperienze di Dp. In Toscana dal 2013 è in vigore una normativa che rende obbligatorio l’avvio del Dp sulle grandi opere di interesse regionale. In questo contesto sono stati avviati due Dp, uno sul riassetto del porto di Livorno e il secondo sul ripristino ambientale delle cave di Gavorrano, entrambi portati a compimento con un discreto successo. Sulla scia di queste sperimentazioni, anche la Regione Puglia ha deciso di dotarsi di una legge che prevede il Dp sulle grandi opere (l.r. n. 28/2017). Tuttavia, mentre in Toscana il Dp è rimasto in vigore indisturbato sino a oggi, la disposizione della regione Puglia è stata prontamente impugnata dal governo che ha sollevato questione di illegittimità costituzionale per violazione del riparto di competenze (ricorso 13 settembre 2017, n. 74). Il ricorso, ancora pendente, apre una ulteriore serie di dubbi non solo rispetto a come la Consulta deciderà il conflitto e a quale sarà il futuro del Dp “regionale”, ma anche rispetto alla modulazione della democrazia partecipativa su più livelli di governo, all’interazione delle diverse procedure e alla possibilità di introdurre meccanismi di coordinamento tra il Dp nazionale e quelli di afferenza regionale.
I nuovi strumenti della democrazia partecipativa, come il Dp, si offrono come una valida soluzione e come un’alternativa sostenibile
Ciò detto, e nonostante le numerose criticità messe in luce, si rimane comunque convinti che i tradizionali meccanismi democratici necessitino di essere rivisti e ripensati, quantomeno al fine di ridurre il profondo gap che si è venuto a creare tra la società civile e le sfere della politica. A questo proposito, i nuovi strumenti della democrazia partecipativa, ossia quelli che, come il Dp, includono i cittadini in percorsi decisionali fondati sul confronto argomentato con l’amministrazione, si offrono come una valida soluzione e come un’alternativa sostenibile a patto che la partecipazione civica non venga strumentalizzata per fini populisti e/o plebiscitari ma sia tenuta in considerazione per ciò che realmente è: un variegato insieme di saperi diffusi che se adeguatamente canalizzati possono attivamente contribuire all’adozione di decisioni più condivise e legittimate.
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