Quando si parla di diritto alla salute, di solito si pensa a due cose: che le istituzioni mettano in atto una serie di misure appropriate per prevenire il più possibile che le persone si ammalino e che quando ci si ammala si possa essere curati. In breve, il diritto alla salute è una richiesta che rivolgiamo alle istituzioni affinché pongano in essere misure che limitino la morbilità delle persone e garantiscano loro l’accesso alle cure mediche in caso di bisogno. Chiaramente per tutelare il diritto alla salute nel primo senso inteso occorre realizzare una serie di misure, il più delle volte non strettamente sanitarie, come per esempio quelle che provvedono alla salubrità degli ambienti (domestici, lavorativi, sociali ecc.), mentre per garantire il diritto alla salute nel secondo senso occorre mettere a disposizione trattamenti sanitari appropriati (e senza discriminazioni di censo, di residenza geografica ecc.).
La pandemia che ha colpito il mondo e l’Italia alla fine dell’inverno 2019-20 impone invece un ripensamento del contenuto concettuale di questo diritto. Il diritto alla salute in questo mutato contesto non può ridursi al combinato disposto di misure preventive di carattere generale e di trattamenti curativi alla bisogna: in primo luogo, perché, come abbiamo drammaticamente potuto constatare, le risorse mediche necessarie per affrontare il Covid19 non sono sufficienti per tutti; in secondo luogo, perché mai prima d’ora, almeno nella parte ricca del mondo e dal secondo dopoguerra, la salute altrui dipende in misura considerevole dalla salute di ciascuno.
Il primo punto è una novità per i sistemi sanitari a copertura universalistica tipici, nelle loro diverse forme e specificità, del welfare europeo. La mia generazione, ma forse anche quella precedente, è cresciuta con l’idea che, nei limiti di quanto fosse nelle possibilità dello sviluppo medico del momento, non si ponesse un problema di scarsità di risorse mediche; salvo che per alcuni specifici settori, pensiamo per esempio al settore dei trapianti d’organo, l’offerta medica è sempre stata in grado di soddisfare la domanda e non sono mai mancate, se non in casi di malfunzionamento del sistema, le terapie per chi ne avesse bisogno. I malati sono sempre stati curati. Il Covid19 ci ha posto di colpo e in maniera drammatica di fronte al fatto che i posti letto in terapia intensiva, ma anche altri dispositivi medici in grado di far fronte alla minaccia, non soltanto non sono infiniti, ma sono anche in numero nettamente inferiore alle necessità.
Possiamo discutere a lungo su quanto questa pandemia sia stata un «cigno nero», inaspettato e perciò non immediatamente gestibile, anche se mi par di capire che questa descrizione dei fatti non sia probabilmente troppo rispondente a realtà; e possiamo dedicarci finché vogliamo, anche se dubito che al momento sia questo un buon modo per impiegare il proprio tempo, a criticare la scarsa tempestività dei decisori pubblici, non solo italiani, a intervenire con misure adeguate di contenimento (ai quali, come anche agli scienziati e ai media, lo ha opportunamente segnalato Alessandra Ferretti su questo sito, va comunque imputata la mancanza di una comunicazione coesa e univoca).
Rimane però questo fatto, che una lunga e consolidata esperienza di agevole accesso all’assistenza medica ci aveva fatto dimenticare: i sistemi sanitari sono una costruzione sociale complessa e i beni e i servizi che forniscono non vanno mai dati per scontati, poiché non sono affatto abbondanti «in natura», ma tali ci appaiono perché sono progettati e gestiti con metodi e procedure che, fin qui, ci hanno protetto dal rischio che non ce ne fossero abbastanza per tutti. Oggi, ma probabilmente accadrà anche domani, ci misuriamo invece col tema della loro scarsità e ci tocca stabilire, se ne è parlato sul «New England Journal of Medicine» e da noi ha posto il problema la Siaarti, linee guida e criteri per l’assegnazione solamente ad alcuni di ciò che non tutti possano avere. Ed è un lavoro, questo, prettamente di etica pubblica, che non può essere lasciato ai tecnici del settore, ma richiede, come è stato giustamente osservato, una discussione più ampia e pluridisciplinare.
Il secondo punto riguarda invece qualcosa che abbiamo sperimentato tutti in maniera ancora più diretta. Affinché il contagio non si diffonda, sottoponendo a rischio di collasso le strutture sanitarie ed esponendo perciò un numero maggiore di persone al pericolo di morte altrimenti evitabile, occorre tenere comportamenti responsabili. Tenere un comportamento responsabile significa, à la Weber direi, che dobbiamo acquisire consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni ed essere disposti a modificare le nostre azioni se queste conseguenze sono in un qualche senso negative. Di questi tempi quali sono queste possibili conseguenze negative delle nostre azioni? Più o meno quel che si segnalava col primo punto. Ammalarsi significa, con una pandemia in corso, contribuire a mettere sotto pressione i sistemi sanitari; analogamente, rimanere contagiati significa contribuire ad alimentare il contagio e dunque il numero di persone malate che finiranno anch’esse per aumentare questa pressione. Per questo, in questo momento, il diritto alla salute richiede, in un certo senso, un dovere di salute: l’impegno a stare bene diventa presupposto per la tutela del diritto alla salute altrui e di tutti, e si concretizza nel mettere in atto misure individuali di prevenzione, oltre che nel fuggire altri possibili rischi indipendenti dal contagio da Covid19 e che tuttavia potrebbero richiedere un intervento del sistema sanitario.
Sembra, per alcuni aspetti, di essere tornati alla fine degli Ottanta del XX secolo, ai tempi dell’esplosione dell’Aids, quando si sollecitavano le persone a comportamenti responsabili, all’epoca in ambito prevalentemente sessuale, di fronte al rischio di un contagio di massa. Il dovere di prendersi cura di se stessi è poi un po’ sparito dalla discussione pubblica, anche perché, quando veniva riesumato, ciò avveniva nelle contese sul fine-vita di inizio secolo e da parte di quanti volevano paternalisticamente imbrigliare il più possibile l’autonomia del paziente e restituire il pallino decisorio nelle mani dei medici.
Questo dovere di cura per noi stessi, il nostro obbligo di stare in salute assume oggi però un altro e ben più condivisibile significato, perché diverso è, evidentemente, il contesto nel quale viene impiegato e dunque diverso è anche il suo fondamento giustificativo. Nel caso del Covid19, le misure di prevenzione, ormai lo dovremmo aver appreso tutti, si concretizzano nel distanziamento sociale e dunque in severe limitazioni alla libertà di movimento (secondo, sia detto per inciso, una possibilità che è offerta anche del dettato costituzionale). Possiamo anche in questo caso discutere – ma è una discussione che non può prescindere dal parere di chi ha competenze medico-scientifiche – quali restrizioni siano appropriate e quali invece eccessive; possiamo pure dubitare che far ricorso al presidio penale e ad atteggiamenti muscolari sia il modo migliore per ottenere comportamenti collaborativi dai cittadini; ed è certamente sgradevole leggere la marea di odio sui social che ha investito intere categorie di persone colpevoli non si sa bene di cosa. Ma che un qualche tipo di rigida restrizione alla libertà di circolazione sia necessaria mi pare una tesi non controvertibile.
L’esigenza di tutelare non soltanto la propria salute, ma anche quella altrui, adeguandoci alle restrizioni che ci vengono imposte, diventa allora un modo per realizzare un altro valore, che siamo soliti spendere senza freni a parole o anche per iscritto, ma che troviamo più difficile praticare: la solidarietà. A differenza di quando firmiamo petizioni per un qualche obiettivo condivisibile ma sul quale, perlomeno con la semplice adesione di penna, difficilmente possiamo incidere, a differenza dunque di quando diamo una solidarietà di tipo espressivo, la pandemia da Covid19 ci dà modo di esercitare concretamente una solidarietà di tipo mutualistico, in cui la salute di ciascuno si lega alla salute di tutti e in cui il dovere di prenderci cura di noi stessi, il dovere di stare bene, esprime quel patto di cittadinanza che tiene in piedi una comunità.
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