L’enorme e inaspettato successo della giornata di mobilitazione delle donne indetta dal comitato “Se non ora quando?”, che ha coinvolto un milione di persone – uomini e donne – in Italia e all’estero, ha spazzato via molti dubbi, sospetti, prese di distanza che l’hanno preceduta. Ricorderò gli argomenti più rilevanti decisamente contrari o comunque sospettosi rispetto a una chiamata in campo delle donne a difesa della loro dignità, presenti nello stesso schieramento del femminismo italiano e della sinistra. Lo farò solo per capire meglio che cosa è invece successo il 13 febbraio. Due ragioni “contro” sono state di gran lunga le più importanti. La prima era legata alla paura di apparire moraliste, addirittura bacchettone, e magari di cadere vittime dell’infernale trappola, fatta di mutande appese, costruita dal libertario intermittente (secondo il suo comodo), nonché ateo devoto, Giuliano Ferrara. La seconda metteva di più l’accento sul fatto che era l’oggetto dell’indignazione ad essere insufficiente come motivo per mobilitarsi. Non la dignità delle donne era in gioco, ma quella dell’intera società italiana attraversata da forti diseguaglianze di genere.
L’ampiezza della mobilitazione che ha coinvolto uomini e donne, donne giovanissime, mature e perfino anziane, intere famiglie, di strati sociali e occupazioni diversi, ha mostrato che tutte le motivazioni potevano esservi rappresentate. Certo la suora salita sul palco a Roma non avrebbe condiviso lo spirito di libertà di scelta, anche nell’uso del proprio corpo, che emanava dalle tante interviste di giovani e meno giovani. Certo le associazioni di prostitute presenti volevano distinguersi dall’appello al rigorismo morale in campo sessuale, di matrice cattolica, pur presente, e ricordare che le “cattive ragazze” sono “cattive” perché c’è ancora una cultura ipocrita che considera la prostituzione una valvola di sfogo a salvaguardia delle ragazze per bene.
Ma tutte queste diverse motivazioni sono state riassunte sotto un’unica, anche se variegata, plurale, domanda di essere considerate/i per quello che si vale, per la fatica e l’impegno che si mette in quello che si fa, giorno dopo giorno, nei mestieri più umili come in quelli più qualificati. Ciò che ha colpito le più giovani, nate dopo i movimenti femministi e la rivoluzione culturale degli anni ’60, è stato svegliarsi e scoprire che la libertà e parità che davano per scontate non lo erano affatto, che nella società vale di più arruffianarsi il potente di turno, e magari finire nel suo letto, che impegnarsi a costruire qualcosa di buono.
In fondo che cos’è la dignità se non quel valore tipicamente moderno che lega libertà individuale e rispetto per gli altri, diritti e responsabilità? I giovani che danno per scontata l’acquisizione di parità e libertà per cui i movimenti del passato avevano combattutto sono molto meno disposti a lasciarsi inquadrare in ruoli prestabiliti, che siano quelli tipici di una cultura tradizionalista o di certi stereotipi femministi. Tutti quanti segnano il tempo nuovo della dignità e del rispetto. Non siamo tutti uguali, alcuni hanno più talento di altri, ma tutti devono essere incoraggiati a dare il meglio di sé secondo le proprie capacità; tutti hanno diritto a essere rispettati come persone che hanno una loro dignità.
La cultura di gran parte di un ceto politico selezionato in base a criteri clientelari, faziosa e servile, è ostile a questo spirito. Chi saprà rendere operativo il principio asserito da un milione di voci diverse non avrà risolto i problemi dell’Italia, ma avrà imboccato la strada giusta per farlo.
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