Il Pd è uno strano partito politico: quando sembra morto spariglia alle elezioni; è il partito più partecipato, ma vince quando l’astensionismo dilaga; si dice democratico, ma è vessato da personalismi oligarchici.
Nell’epoca della mediatizzazione della politica resta per molti versi un partito d’altri tempi. A parere di alcuni, il male oscuro del Pd deriva dalla nascita, da una fusione a freddo tra diverse anime dei partiti della prima repubblica. Quel precario assemblaggio e quell’ancoraggio al passato sono le conseguenze, da un canto, del bipolarismo maggioritario che ha spinto pezzi sopravvissuti all’eclissi della Dc (Margherita) e del Pci (Ds), a coalizzarsi in uno schieramento di centrosinistra e, poi, a fondare un partito. Dall’altro, sono la conseguenza della vicenda Bicamerale, il cui fallimento favorì la permanenza di tradizioni di partito a rimorchio di un’anacronistica oligarchia (cambiarono i nomi dei partiti, ma non a sufficienza gli uomini).
Il Pd raccoglie ancora oggi gran parte del suo consenso mediante il proprio telaio territoriale e la sua fitta rete di amministratori locali, che poi sposano (ma con crescente autonomia) le varie oligarchie nazionali di partito. Un partito di amministratori e portaborse: è con queste figure che il Pd si garantisce un radicamento territoriale e solo marginalmente con gli iscritti. Le cosiddette assemblee di base (di federazione comunale) sono in prevalenza composte a maggioranza da amministratori e dai loro nominati. Tuttavia da almeno 20-25 anni, lo scenario politico del grande mercato del consenso è profondamente cambiato. Voto d’appartenenza e voto di scambio si sono indeboliti, il primo per astinenza ideologica, il secondo sotto il macigno delle risorse pubbliche scarse, un punto cieco del Paese reso drammatico dalla crisi. La società della comunicazione e dello spettacolo, che ormai in politica spadroneggia, ha incoraggiato il voto d’opinione e quello di dissenso, mettendo in rilievo privilegi e sprechi della casta e dell’alta burocrazia. Il voto è maggiormente veicolato dalle televisioni commerciali, dalla “politicizzazione” dello spettacolo informativo e cresce la diretta politicizzazione del web (il 17,5% degli italiani: Bes/Istat 2013). Si tratta di due eventi mediali che hanno segnato il destino di due leader politici, Berlusconi e Grillo, capi assoluti di partiti liquidi, plebiscitari e populisti, ciascuno a modo suo carismatico e insieme caricatura delle aspettative televisive e di rete degli italiani. La politica nei circuiti mediatici richiede capi certi, personalità carismatiche che le vecchie oligarchie democrat, fino a oggi, non sono riuscite a esprimere: in breve, un partito surclassato da anacronistiche oligarchie, un partito con numerosi personalismi elitari, ma senza leader né leadership. Qualcosa di meglio il centrosinistra era riuscito a fare negli anni Novanta, ai tempi di governi rafforzati con la protesi di chiare competenze tecniche e spirito istituzionale. I media richiedono un capo di partito autorevole prima ancora del partito stesso, un leader certo, piuttosto che ostaggio «collegiale» delle correnti. I media, vero spazio della politica moderna dall’India al Messico, penalizzano le élite oligarchiche ed esaltano i leader. Nel Pd ci si guarda bene dall’affrontare l’argomento, piuttosto ci si lacera per rivitalizzare un gruppo dirigente «che viene da lontano», di élite ormai spente dalla personalizzazione e dalla mediatizzazione della politica, riluttanti a ricercare una vision di periodo. Per questo occorre un partito e un leader nuovo, capace e persuasivo.
Matteo Renzi ha capito da tempo l’antifona - l’incapacità comunicativa del Pd «grande come una casa», secondo le sue parole. La forza del suo messaggio di rottamatore, che lo rende competitivo al M5S, sembra depotenziata e, forse, è il momento che il sindaco rifletta e concorra con maggior decisione a riscrivere una strategia d’idee distintive. Questa strategia è un punto debole non solo di Renzi, ma di tutta l’elite politica del Pd, nel tempo infoltitasi di fedeli cortigiani, interessati più ai propri destini personali che capaci di contribuire alla formazione di vision unitaria. Ormai nel Pd sono in molti a ritenerlo il leader di cui c’è bisogno: si è proposto senza mezzi termini a guida per una svolta nelle elite e ha già dimostrato di godere di forza relazionale e di elevato consenso mediale. È capace d’empatizzare e si rivolge sempre a tutti gli italiani, pur manifestando fede alla sua appartenenza. Né vuole apparire uomo tradizionale di partito: il suo punto di forza non è certo imitare le oligarchie di partito che parlano solo al loro cerchio elettorale. La capacità di rivolgersi non solo a pubblici differenziati, ma a un’audience di massa è la sua carta vincente. La segreteria sembrava interessargli solo come possibile viatico alla premiership: ma c’è già Enrico Letta a capo dell’unico governo possibile nella democrazia parlamentare italiana, in tempi di marosi politici tra i fulmini dell’astensione, del grillismo, del tramonto del “grande persuasore”. Letta ha il vantaggio di essere già in carica, anche se ha il suo bel da fare nel suo ruolo di negoziatore: dovrà svolgerlo con grande stile, rinverdendo una tradizione di negoziatori che governò il paese tra i Settanta e gli Ottanta e tra i quali Andreotti fu astro discusso di prima grandezza. Dunque Letta negoziatore e Renzi persuasore: in un certo senso una situazione ideale per il Pd che specializza due suoi due leader di razza.
Ciononostante ritengo che il Paese non abbia bisogno di compromessi, inevitabilmente al ribasso, né di essere persuaso senza adeguati contenuti in grado di sollecitarlo a una capriola emotiva e cognitiva rispetto all’attuale suo stato di pessimismo e frustrazione. Per questo al Pd serve Renzi, leader persuasore, ma al contempo, un’élite democrat adeguata a guidare il Paese sul piano economico, politico e morale.
Sulla riva sociale, infatti, sono in crescita i cittadini informati e competenti che vorrebbero nel Pd un leader sostenuto da una classe dirigente che non fosse acefala come l’attuale élite democrat: inoltre, da essa e dal leader pretenderebbero una visione di periodo per non restare imprigionati nel pessimismo quotidiano della crisi. Quel che manca al Pd é un nuovo tipo di leadership dotata di forti convincimenti associati ai destini personali, capace di creare una sintonia interna e dialogare con una piattaforma politico-culturale il più possibile condivisa con la cittadinanza. Significa lavoro, Welfare e crescita: toccare le corde delle aspettative di un nuovo benessere su cui le nuove generazioni potranno confidare, dopo la società dei desideri liberista e dopo il digiuno dai desideri che la crisi ha imposto. Significa anche capacità di creare egemonia e consenso superando le questioni spinose per il liberalismo di sinistra (meglio democratico), come il rapporto tra eguaglianza e libertà che oggi esige una rivalutazione dell’individuo (liberta da) e una nuova formula politica di coesione sociale. Il rapporto delle élite politiche e intellettuali del Pd con il Principe si giocano anche su questo piano ideologico (Salvati) e il Principe difficilmente ammette intrighi di Palazzo. In breve, questa elite politica e intellettuale del Pd, se vuol contare come classe dirigente, concorra a dare sostanza e visione all’idea del suo nuovo leader. Non servono minoranze, ma contenuti.
L’Europa, con il mondo, si è incamminata negli anni Duemila senza che la cultura laburista e socialdemocratica abbia prodotto nuove idee e strategie utili al nuovo paesaggio economico, sociale e geopolitico in cui si è trovato il vecchio continente. Il declino di visione strategica che ha colpito l’unione intergovernativa a trazione tedesca è imputabile alla destra che ha governato nei maggiori paesi, ma anche alla mancanza di un’alternativa a sinistra. La sinistra é orfana di analisi e visioni di periodo e non si pone da tempo le domande giuste, soprattutto in Italia. Ne cito alcune, una piccola frazione. Non è forse vero che la partita salariale nei paesi occidentali è persa perché il mercato del lavoro, un tempo nazionale, oggi è nettamente influenzato da fattori “esterni”? Non ne costituisce un segnale la diminuzione dello spread salariale tra Occidente e Brics? E se la partita salariale è per ora per metà persa (anche per il declino dei salari complessivi sul Pil) qual è l’idea di Welfare che può mettere la società al riparo dall’erosione di capacità di reddito e di consumo, dopo che la finanza ha chiaramente fallito nel ruolo di compensazione dei salari (credito facile, borsa ecc.)? E il nuovo Welfare non dovrà riconoscere un riequilibrio fiscale tra rendita e privilegi da un canto e profitti e salari dall’altro? Non indurrà a “ri-vedere” la spesa pubblica, in una società senza classi ma con disuguaglianze in aumento? La vecchia cittadinanza di ceto medio dov’è finita? Come governare una società altamente differenziata e plurale?
Non a caso la realtà europea è per ora l’austerità, la “letargocrazia”. Crescita ed equità stentano a entrare nelle strategie effettive e nelle decisioni dei governi. Dopo la vittoria per un soffio di Hollande in Francia e quella sul filo del rasoio del Pd di Bersani in Italia, infine anche l'esito delle elezioni tedesche fotografa l’impasse ideale e strategica della sinistra in Europa: la rielezione di Angela Merkel significherà probabilmente ancora l’idea dell’Europa tedesca a discapito della Germania europea che consentì l’unificazione della nazione tra Ovest ed Est. C’è necessità di riportare la politica al centro dell’Europa, superando i nazionalismi novecenteschi. Se il congresso del Pd non mette attenzione alle nostre grandi problematiche istituzionali sociali ed economiche, a poco servirà la polvere mediale sollevata da ragionamenti su regole e leader promettenti, su evanescenti piattaforme di cultura politica. Non a caso l’astensionismo sta rendendo fragili i mercati del consenso politico di tutti i grandi paesi europei, Italia inclusa. La politica deve riprovare a volare alto e i governi devono ritrovare quel minimo di razionalità pubblica kantiana su cui costruire il telaio delle decisioni necessarie da adottare. Difficile, ma dentro le probabilità oggettive a disposizione dei democratici.
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