Abbiamo ancora bisogno della politica? Occorre avere il coraggio e l’onestà intellettuale di porsela, questa domanda imbarazzante, qualunque sia oggi (domani, mentre viene scritta questa nota) il risultato delle elezioni europee. Per politica si intende quella democratica, con le sue regole, le sue mediazioni, i suoi bilanciamenti di potere, i suoi partiti, e anche con le sue complessità e lentezze necessarie.
Nella crisi profonda in cui si trova, presa fra tecnocrazia e populismo, per alcuni la democrazia già apparterrebbe al passato. Lo confermerebbe la cosiddetta antipolitica, cioè l’insofferenza e qua e là l’odio nei confronti del personale politico. A poco varrebbe obiettare che se il pubblico (per usare un termine up to date, e vagamente totalitario) detesta la democrazia, è perché ha dimenticato, o gli è stato fatto dimenticare, che cosa davvero è una politica non democratica, e quali davvero sarebbero le sue conseguenze. Non si possono più utilizzare modelli desueti come quello dell’opposizione tra democrazia e autoritarismo. Governare il mondo oggi è del tutto diverso da quel che è stato governarlo ieri. Così si risponderebbe, e magari si aggiungerebbe l’ormai consueta apologia dell’efficienza e della velocità delle decisioni. Né mancherebbe qualche fantasioso che, come Beppe Grillo, se la caverebbe con un ironico (direbbe lui) «io sono oltre Hitler».
È difficile negare che lo scarto tra quanto i cittadini si aspettano dalla democrazia e quanto ne ricevono sia forte, anche al netto di scandali e corruzione. Ed è difficile negare che, almeno in Italia, all’antipolitica si sia cercato di rispondere non innalzando il livello della politica, ma riducendo gli ambiti della democrazia. Può darsi che le Provincie andassero abolite, e può darsi che il bicameralismo sia in se stesso faticoso. In ogni caso, solo questo si è fatto. O meglio, solo questo si è detto (più che abolite, le Provincie sono state de-democratizzate). Soprattutto, solo questo è stato rivendicato come merito riformatore, insieme con un’ingegneria elettorale che esclude gran parte delle minoranze (anche all’elezione del Parlamento d’Europa la legge italiana ha applicato uno sbarramento del 4 percento, che non è giustificato da alcuna “governabilità, e contro cui già stanno partendo ricorsi analoghi a quello che ha travolto la legge porcata). Conviene dunque capovolgere la questione, e supporre che quel che abbiamo davvero dimenticato non sia che cosa è una politica non democratica, ma che cosa dovrebbe essere, davvero, una politica democratica. Al pari di ogni altra forma politica, la democrazia è un sistema per distribuire i costi e le risorse della vita sociale e individuale. A renderla unica è però il fatto che in essa tra i vincitori e i vinti – tra le maggioranze e le minoranze – permane un certo grado di rispetto, e una sorta di umiltà dei primi nei confronti dei secondi. Chi oggi ha perso, domani potrà vincere, e chi ha vinto oggi deve essere disposto a perdere domani. Questo è appunto garantito dalle regole democratiche, che impediscono la trasformazione della decisione presa a maggioranza in una verità da imporre alla minoranza. La democrazia non è un sistema per individuare la scelta giusta in sé, ma un sistema per prendere decisioni senza ricorrere alla violenza. Potremmo anche descriverla come il sistema per prendere decisioni contando le teste, invece di tagliarle. Il vantaggio maggiore non è delle maggioranze – che sanno sempre come tutelarsi –, ma delle minoranze, alle quali è lasciata la possibilità di trasformarsi in maggioranze.
La democrazia è dunque il sistema politico dal quale è stata bandita la morte, e che si fonda sulla dignità e sulla libertà di ognuno. Per il resto, in se stessa, una decisione presa a maggioranza potrebbe anche essere la peggiore e la meno giusta. Pericolo, questo, che si cerca di ridurre con un corpo di super regole, di norme costituzionali che fissino diritti non riducibili e, dal punto di vista procedurale, stabiliscano bilanciamenti e limiti di potere interni al sistema.
La finalità della democrazia non è produrre una società perfetta, ma una forma di governo accettabile da tutti i cittadini. Insomma, la politica democratica non promette, non può promettere felicità. La sua natura è, per così dire, dimessa, non incline agli squilli di tromba. I suoi tempi sono necessariamente lunghi, le sue procedure necessariamente complesse. In questo senso, la democrazia è fragile, esposta agli attacchi di chi si dice più efficiente, più veloce, più giusto. Inclini agli squilli di tromba, e alle promesse di felicità, sono le altre forme politiche, dalla teocrazia al totalitarismo. E tuttavia, gli uomini e le donne si aspettano dalla democrazia risultati che somigliano proprio alla felicità, a prescindere dal loro agire individuale concreto e responsabile. Non a caso, tra i politici democratici i veritieri raccolgono meno consenso dei bugiardi (talvolta anche dopo che sono stati sbugiardati).
La delusione che segue a una tale (incongrua) richiesta di felicità apre uno scarto crescente fra attese e soddisfacimento. In questo scarto si insinuano i nemici della democrazia. I primi sono proprio gli uomini politici democratici, pronti a colmare lo scarto abdicando alla propria funzione, e cedendola in parte o in tutto a tecnici, a esperti. In questo modo, spoliticizzando la politica – facendone una questione non di confronto tra maggioranze e minoranze, ma di saperi superiori ingiudicabili dai cittadini –, contribuiscono alla diffusione di un atteggiamento che svaluta la politica, e in specie il processo democratico.
Poi, ovviamente, tra i nemici più o meno espliciti della democrazia ci sono i populisti. A loro riesce facile promettere felicità e giustizia. Basta semplificare, dicono, basta velocizzare. E intendono: velocizzare e semplificare le questioni di merito, ma anche e soprattutto le procedure decisionali, insieme con i bilanciamenti e i limiti di potere. Diventata un valore in sé, la velocità conta più delle regole. Invece di preoccuparsi che i vincitori rispettino i vinti, i populisti – quelli dichiarati e quelli in pectore, per così dire – si presentano come paladini e gestori del bene e del vero contro il male e l’errore. E magari lo fanno in nome di un popolo pensato come un’entità astratta, superiore alla somma degli individui.
È questa l’ideologia di internet, per cui la rete abolirebbe ogni mediazione tra singolo e dimensione politica, e sarebbe (magicamente) in grado di determinare la volontà del popolo e la decisione giusta. La chiamano poi democrazia diretta, questa menzogna ideologica. E nascondono il fatto che, se è diretta, lo è nel senso di guidata e comandata. Non conta che i fruitori politici della rete siano una infima minoranza (per di più, filtrata e manipolata). E neppure conta che, chiudendosi all’interno di circuiti culturalmente e politicamente omogenei, si convincano che fuori ci sia l’altro, il nemico da combattere e vincere, ora rieducandolo, ora processandolo in rete, contro ogni principio di civiltà giuridica, politica e umana. Quello che conta è che il populista indica ai seguaci la strada maestra verso la felicità.
Ora la questione è: abbiamo ancora bisogno della politica e della democrazia? Oppure lasciamo l’una a favore della tecnocrazia e l’altra a favore dell’autoritarismo populista? Qualunque sia la risposta – che si voglia andare “oltre” la democrazia, o che la si voglia difendere – è il caso di darsi da fare.
Riproduzione riservata