In un articolo tradotto su «Internazionale» nel gennaio 2018, Jonathan Franzen descriveva la sorte, ancipite e paradossale, toccata alla saggistica nel nuovo millennio. Da un lato, la diffusione capillare di piattaforme e social network ha enormemente ampliato le occasioni di commento per chiunque sia dotato di una connessione Internet: «Se consideriamo la parola “saggio” nel senso di “prova” – di qualcosa di azzardato, non definitivo, non autorevole, un tentativo fatto sulla base dell’esperienza personale e della soggettività dell’autore – si potrebbe dire che viviamo nell’età d’oro della saggistica». D’altro canto, Franzen nota come, fra le conseguenze di questa rivoluzione, l'improvviso e rapidissimo allargamento della platea delle persone disponibili a prendere parola abbia promosso nella pubblicistica letteraria una tendenza all’impressionismo egotistico a scapito delle analisi obiettive dei testi.
La faccenda è un po’ più complicata di così: chiunque abbia un minimo di esperienza di didattica sa bene quante analisi sterili si propinano e si subiscono ancora oggi sotto i vessilli di una presunta obiettività dell’analisi letteraria, un Moloch in nome del quale sono stati immolati fin troppi studenti. Quando si scrive di fatti culturali il massimo di obiettività legittimamente perseguibile, che non abbia cioè come effetto collaterale il decesso istantaneo di chi ci legge, somiglia meno al risultato di una procedura formalizzabile e più a una densa stratificazione di buonsenso, un termine grammaticalmente tollerato al singolare, ma che tende per sua natura al plurale, anzi al pluralismo (dei metodi, dei punti di vista, delle visioni…). Si tratta di un senso che si può allenare leggendo e studiando molto, ma non solo leggendo e studiando.
Tolta la saggistica specialistica prodotta e consumata nei circuiti universitari, tolto il giornalismo culturale che propone ogni giorno contenuti sempre più granulari, «spacchettabili», su giornali cartacei e siti web, imitando l’agitarsi dei pistoni della macchina delle novità editoriali, non restano qui da noi moltissimi i tentativi di dar corpo a una proposta di critica culturale ad ampio spettro e al passo coi tempi che viviamo, che sia a un tempo legata a doppio filo alla personalità di chi scrive, ma anche chiara nei suoi presupposti concettuali e culturali; una critica che sia discutibile, dove l’aggettivo va inteso in due sensi, cioè che vale la pena discutere e che può (e chiede di) essere messa in discussione.
Non restano qui da noi moltissimi i tentativi di dar corpo a una proposta di critica culturale ad ampio spettro e al passo coi tempi che viviamo
Fra questi tentativi, possiamo annoverare gli sforzi «a stile libero» di Matteo Marchesini, che con Diario di una cavia. Saggi di letteratura e attualità (Castelvecchi, 2023), ci ha consegnato la sua quarta raccolta saggistica in circa dieci anni dopo Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia (Quodlibet, 2014), Casa di carte. La letteratura italiana dal boom ai social (Il Saggiatore, 2018) e Scienza di niente. Poeti, narratori e filosofi moderni (elliott, 2020). Con questo libro, l’autore si affida ancora una volta alla forma del journal o zibaldone critico composto di pezzi per la maggior parte già pubblicati altrove, il formato che più rispecchia l’occasionalità dei suoi interventi culturali, disseminati settimanalmente fra quotidiani, radio e riviste. Diario di una cavia si divide in quattro sezioni (Cinque diagnosi culturali; Italia in corsivo. Satire, polemiche, divagazioni; Ritratti di moderni e di contemporanei; Diario di una cavia), dove saggi più robusti fanno da cerniera a medaglioni più concisi e dove gli affondi analitici traggono linfa dai corsivi di più ampio respiro (e viceversa), in un sistema di vasi comunicanti la cui circolazione è garantita da una rete di rimandi impliciti e allusioni ricorsive, che fungono da guarnizione di tutto l’impianto.
Con Diario di una cavia, Marchesini attraversa gli anni pandemici e ripercorre la tragicommedia delle reazioni dell’Italia culturale di fronte a questo insieme di circostanze epocali che già rappresenta uno spartiacque nella storia del nostro secolo. Queste riflessioni segnano una nuova tappa nell’evoluzione del percorso intellettuale dell’autore e mettono in atto un compromesso intelligente fra l’osservazione a caldo, che sull’onda dell’emotività e della fretta ha fatto prendere a molti diverse cantonate (come era prevedibile e inevitabile), e l’impassibilità renitente di tanti osservatori che, come le tre scimmiette, passata la buriana hanno ripreso a vivere come prima, rinunciando alle occasioni di osservazione, messa in dubbio e riflessione offerte, a un prezzo molto alto, da quanto accaduto fra il 2020 e il 2022. È in questa chiave che leggerei il titolo del libro, nel quale il riferimento al genere diaristico rimanda a una riflessione in progress, maturata giorno dopo giorno nello sforzo, sempre difficile e mai concluso, di connettere quello che si sa con quello che si osserva e si sperimenta in prima persona: da qui l’elezione della cavia a emblema della raccolta.
È molto difficile dare una panoramica soddisfacente di un libro stratificato e vario come Diario di una cavia. Le righe che seguono valgano come quelle istruzioni approssimative che si danno ai passanti che ti fermano per strada in cerca di indicazioni. Personalmente, ho riapprezzato in modo particolare nella lettura a volume (dopo averli intercettati in Rete) molti dei pezzi più lunghi, panoramici e di portata strategica come Cura te ipsum. Lettera aperta a Goffredo Fofi, La pandemia letteraria, Vittoria dell’io romantico, Le due facce del consenso. Su pedofilia e letteratura, La realtà muta e Il sogno di una cosa. Ho detto lunghi, ma l’aggettivo più corretto sarebbe densi, perché la lettura della prosa di Marchesini impone alla nostra attenzione sempre più lampeggiante un rallentamento di passo per essere pienamente apprezzata, come può verificare da sé chi voglia aprire uno dei link integrati nella fine del periodo precedente. Si tratta di una prosa saggistica che gioca abilmente sul confine sfumato che separa divulgazione e critica e la cui lettura può risultare faticosa o addirittura ostica al lettore che non vi fosse abituato; ciò, tuttavia, non accade per l’eccesso di citazioni, l’uso di gerghi iniziatici, il ricorrere a tecnicismi celibi o a categorie vaghe, bensì per la naturale vocazione della critica di Marchesini a una sintesi concettosa che si sa dotta, ma non si vuole erudita.
Gli esperimenti e le prove a cui la cavia saggistica si è sottoposta negli ultimi anni hanno stemperato qualcosa di quel carattere antagonista, impressionista e teppistico che molti commentatori hanno attribuito – con ragioni a mio avviso mai definitive – alla critica di Marchesini, facendo comunque guadagnare qualcosa al libro in termini di esperienza e maturità. Sul fronte dell’italianistica, i nuovi ritratti inseriti in Diario di una cavia chiariscono ulteriormente i presupposti della proposta dell’autore, moderandone e chiarendone certe posizioni: penso al bel medaglione sullo Zavattini pacifista, che amplia l’argomento di Marchesini intorno alla linea del comico padano o all’elogio della saggistica di Alfredo Giuliani a scapito – ma questo lo dico io – di saggisti più rozzi e smisurati di quell’area. Con un altro procedimento tipico in Marchesini, altri autori «mitici», come Rodari o Fenoglio, vengono sottratti alle luci di una ribalta perenne, che spesso non permette di metterli in prospettiva e di indovinarne la sagoma esatta nel panorama del nostro Novecento.
Queste prese di posizione possono essere condivise o meno, ma offrono sempre uno spunto di riflessione su cui inciampare, utile anche all’apologeta più accanito – si vedano le rivalutazioni a uso del XXI secolo del Manganelli corsivista o della Ginzburg saggista. Collateralmente, l’autore non rinuncia a fare qualche interessante ipotesi di valore su autori della contemporaneità più stretta, come accade nelle recensioni ad Alessandro Gori (Lo Sgargabonzi), Francesco Pecoraro, Alessandra Sarchi, Ezio Sinigaglia, Paolo Zanotti o allo sconosciuto Nader Ghazvinizadeh.
Le prese di posizione di Marchesini possono essere condivise o meno, ma offrono sempre uno spunto di riflessione su cui inciampare, utile anche all’apologeta più accanito
Dal punto di vista dei formati critici, anche in questo libro Marchesini propone diversi esempi di miniature critiche comparative, dove l’autore viene messo di fronte a un compagno (simile, diverso o simil-diverso) come a uno specchio in grado di rivelare un nuovo dettaglio in un viso che credevamo noto. Così accade in pezzi come Manzoni, Leopardi e il coraggio, Due antipodi: Flaubert e Dostoevskij, Fortini e Pasolini: testi a fronte o nell’esercizio funambolico Miti dei narratori, nel quale Marchesini prova a miniaturizzare nomi del calibro di Calvino, Gadda o Moravia, individuando per ciascuno di loro un apologo «originario», che contenga per sineddoche la loro intera narrativa.
Temo che quanto scritto finora tradisca l’immagine di un libro originale, difficile, ma forse un po’ serioso o pensato per i soli addetti al lavoro culturale, categoria satireggiata da Marchesini con un’ironia partecipe in diversi passaggi del libro, ad esempio nell’omaggio a Bianciardi. Al contrario, Diario di una cavia è anche un libro divertente, ironico, come testimoniano i diversi pezzetti parodici sparsi soprattutto nella seconda sezione del volume, da I Promessi sposi del 2020, a Tipi di Facebook e all’impagabile Zero titoli. Una parodia editoriale, catalogo inventato (ma non del tutto) dei trend più in voga nell’editoria italiana di oggi per ciò che riguarda i titoli dei libri.
A valle della mia esperienza di lettore in grado di valutare nel merito solo una porzione degli argomenti trattati dall’autore, mi pare di poter dire che Marchesini non ami le staffilate gratuite e i cannoneggiamenti immotivati anche quando sembra che le cose stiano altrimenti. Detto questo, ogni lettore vivrà almeno qualche momento di fastidio (o di produttivo attrito?) e avrà qualcosa da eccepire su questo o quel giudizio, su questa o quella formula, sull’impostazione di questa o quella questione, ma in fondo è giusto che sia così. Se fosse concesso stravolgere una vecchia battuta di Woody Allen, non vorrei mai leggere un libro che mi trovasse sempre d’accordo su tutto. Non è infatti per questo che ha senso che si scrivano e si leggano ancora libri di critica culturale – il genere letterario più marginale fra i generi marginali –, per testare cioè con onestà la tempra delle nostre opinioni e delle nostre idee ricevute, delle nostre ragioni e dei nostri torti veri o presunti, esercitando i pensieri in uno spazio in cui qualsiasi opinione possa essere messa in discussione senza partiti presi e dove, come scrive spesso Marchesini ricordando Simone Weil, l’intelligenza non debba mai sentirsi a disagio?a
Riproduzione riservata